"E mia zia Ninni disse: 'Questo mi ucciderà...'"

“Zia Ninni disse: ‘Mi ucciderà'”, il delitto della parruccaia

Un omicidio con ventisette coltellate. Il giallo e la ricerca della verità sulla morte della parruccaia.

(Roberto Puglisi) L’azzurro degli occhi e del mare. Il verde della tenda. Il rosso del sangue. Tornare a raccontare la storia di Ninni Giarrusso, donna forte e amabile, parruccaia assassinata con ventisette coltellate in via Dante, a Palermo, undici anni fa, significa immergersi nelle tonalità di colori netti. Il primo è ancora il giallo. Non sappiamo il perché di quella ferocia esplosa nel negozio della signora. Non conosciamo il nome dell’assassino, né il movente. Le indagini, lunghe e meticolose, non sono approdate a una conclusione, pur avendo passato al setaccio, in ogni direzione, una vicenda terribile.

“Mia zia aveva confidato in famiglia: ‘Questo mi ucciderà…’. Ma, nonostante gli accertamenti e le indagini, non si è riusciti a mettere insieme la successione dei fatti di quel giorno e l’identità dell’omicida” (qui il punto sulle indagini). Daniela Carlino è la nipote di Ninni, sono ritratte entrambe nella foto che scolpisce una memoria di anni fa. Sorseggia un decaffeinato, sotto un cielo azzurro come i suoi occhi, al bar ‘La Cubana’, nei paraggi della redazione di LiveSicilia.it. E racconta: “Mia zia Ninni era come una mamma per me, io ne ho avute due: la mia e lei. Era una persona fortissima e dolcissima al tempo stesso. Da bambina, era cresciuta in orfanotrofio. Aveva un senso solidissimo del sacrificio e della famiglia”. L’azzurro è anche il mare: “La zia lo amava moltissimo. Al sole era una lucertola. Quella mattina, saremmo dovute andare insieme a Mondello”.

Daniela combatte la battaglia di chi non accetta che in calce al dolore resti il mistero. “C’è stata tanta omertà – dice -. L’omicidio è stato eclatante, impossibile che nessuno abbia sentito niente nei dintorni. Io torno a lanciare il mio appello: se qualcuno sa qualcosa, parli. E ci dia la possibilità di conoscere la verità”.

Era un giorno sfolgorante, quel 30 aprile del 2012. “Sì, saremmo dovute andare a mare – racconta Daniela -. Ma la zia non rispondeva al telefono. Ci siamo messi in macchina per precipitarci in via Dante, con un terribile presentimento e tantissima preoccupazione. Mia mamma, la sorella di Ninni, ha chiamato un’ambulanza. Non dimenticherò mai la scena che ho visto. Il corpo di mia zia coperto da una tenda verde e la sua mano insanguinata che sporgeva. Si era difesa, aveva cercato di non morire, di sopravvivere. Aveva lottato. In quel momento mi sono resa conto che un mondo, l’universo felice del negozio, dove avevo giocato da bambina, era stato violentato per sempre. Mamma è rimasta, come tutti noi, traumatizzata. E’ morta di tumore, senza indicazioni, senza un nome. Nei giorni della malattia ha indossato, con amore, una delle parrucche della zia”.

Lo sguardo di Daniela brilla con crescente vividezza, mentre finisce il caffè. Dentro ci sono tutte le cose che non potranno essere mai smarrite. Il frigorifero sempre pieno della zia Ninni che, essendo cresciuta in orfanotrofio, non poteva fare a meno di un simbolo domestico di sicurezza. C’è l’impatto del mare e del cielo. C’è la tenda verde che rappresenta un passaggio di confine: dalla dolcezza al terribile.

Ma non c’è, in questa testimonianza, il colore impallidito della resa. Nessuna resa. Mai. “Non avremo pace finché non sapremo”, la voce invoca una promessa. Ed è allora che una pena smisurata, come liberata dal coraggio, si scioglie, negli occhi di Daniela Carlino, in un pianto che somiglia a un abbraccio. (rp)


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