PALERMO- Il bravo, signorile e cortese Gian Piero Gasperini lotta invano da qualche tempo contro la dea bendata, che deve avercela con lui per qualche ragione misteriosa, che so, uno sgarbo fatto in tempi non sospetti quando la sua carriera, in quel di Genova, filava dritta e luccicante come la lama di una spada. Ai tempi in cui allenava la squadra rossoblù, infatti, Gasperini passava per uno degli allenatori più promettenti dell’intero panorama calcistico nazionale. Il suo Genoa giocava un calcio non solo bello a vedersi ma anche ricco di gol e vittorie. Poi qualcosa successe, si spezzò il legame che sembrava indissolubile tra lui e Preziosi e il Gasp venne esonerato, giusto all’indomani di una sconfitta subita ad opera del Palermo.
Succede più spesso del dovuto nel calcio che i grandi “amori” si trasformino di colpo in gelidi abbandoni e i motivi sono sempre gli stessi: qualche partita persa, qualche punto lasciato per strada. Da quel divorzio, i due che si erano tanto “amati”, non hanno più ritrovato la pace: il Genoa di Preziosi non ha più assaporato le delizie dei tempi belli di Gasperini e quest’ultimo ha penato le pene dell’inferno, approdando, dopo quasi un anno di stop forzato, all’Inter, come fosse il salto di qualità che ogni carriera vorrebbe avere e invece si rivelò ben presto come una tagliola, nella quale lui perse letteralmente la testa.
Quattro partite, sconfitte in serie, una clamorosa, guarda un po’, ancora ad opera del Palermo al “Barbera” e lui si ritrovò a spasso, come avesse smarrito per sempre la retta via, quella seguita fin lì, nel Genoa di Preziosi. E siccome il destino è un giocherellone e si diverte a rimescolare le carte, dove ricomincia il bravo, signorile e cortese Gasperini? Nel Palermo, che battendo il suo Genoa, l’aveva fatto esonerare. E non solo, perché c’entra ancora il Palermo, se qualche tempo dopo la bruciante sconfitta subita dall’Inter al “Barbera”, Moratti lo sostituì con Ranieri.
Ma – dicevo – qualche sgarbo deve averlo fatto il bravo e cortese Gasperini se da qualche tempo sembra piovergli addosso una specie di nuvola fantozziana, che gli spezza sul nascere tutti i suoi sogni di gloria. E sì, perché il Gasp sogna, e sogna sempre in grande, lui non difetta certo di autostima, tutt’altro, ed è per questo, per realizzare i suoi sogni, che lavora come un matto, si accanisce sui dettagli, non lascia nulla al caso, vuol tutto programmare e organizzare. E lo fa di gran lena, subito, appena arrivato al Palermo: in meno di una settimana ha già individuato il suo “undici” di base, quello che deve mandare avanti la baracca, già squinternata dalle due sconfitte iniziali con Napoli e Lazio e dallo striminzito pareggio interno col Cagliari. Tre partite e un solo punto nel carniere. Lui avverte subito che bisogna rivoltare la squadra come un pedalino e lo fa, con un coraggio che sfiora l’incoscienza: si affida, come fa da sempre, al suo solito 3-4-3 e sceglie d’istinto (non può essere altrimenti, visto che è appena arrivato a Palermo) agli interpreti migliori per quel sistema di gioco. E d’istinto decide di mettere in panchina nientemeno che Miccoli, il capitano, la storia, il goleador, il fuoriclasse – l’unico a disposizione nella “rosa” – del Palermo. Clamoroso e… audace, fino all’autolesionismo.
Ma lui è fatto così, ha le sue idee e non le baratta per niente e per nessuno, deve solo convincersi che ha sbagliato per aggiustarle, rivederle, scompaginarle. E lo fa in fretta, perché è testardo ma capisce di calcio e di uomini e sa che il Palermo senza Miccoli (e Miccoli senza il Palermo) non può essere mai una squadra, qualunque schema lui gli abbia impartito. Col Chievo rientra il capitano che subito, ferito nell’orgoglio, sfodera una prestazione super, tre gol e l’assist per il quarto, quello di Giorgi. E comincia un’altra storia per il Palermo del Gasp, una storia che vede anche l’arrivo di Pietro Lo Monaco e, da quel giorno, una serie utile di quattro partite. Con un’escalation di gioco e di schemi che fruttano tre pareggi e una vittoria: troppo poco per risalire la china, ultimi eravamo e ultimi (o penultimi) restiamo. Come un pedaggio insormontabile, una specie di “peccato originale” per liberarsi dal quale occorre ben altro che l’organizzazione di gioco, la dedizione, la disciplina che in poche settimane Gasperini ha saputo trasmettere alla sua squadra. Come anche ieri a Siena, dove il Palermo ha fatto la partita, l’ha governata per ottanta minuti su novanta (basti vedere il possesso palla, 58-42 per i rosanero), ma pochi spunti vincenti, solo un paio nella ripresa, uno dei quali clamorosamente fallito proprio dal suo capitano, una palla gol quasi impossibile da sbagliare, eppure Miccoli l’ha sprecata come un broccaccio.
Perché succede, nel calcio come nella vita, che all’improvviso e sul più bello, un buio pesto ti cali sugli occhi e tu non vedi più niente. Neanche la porta spalancata davanti, sette metri e rotti, così liberi e sgombri che sembra impossibile non centrarla. E qui, secondo me, c’entra quella dea bendata che opprime da tempo Gasperini, se è vero che ieri ha potuto finalmente schierare la formazione migliore, con Mantovani e Brienza al rientro e, naturalmente, con Miccoli dal primo minuto. E se è vero, altresì, che ieri a deludere sono stati proprio loro, le tre stelle, le sole che conta il Palermo, ovvero Miccoli, Ilicic e Brienza, nell’ordine. Tutti gli altri, i cosiddetti comprimari compresi, hanno dato il massimo… Massimo Donati, su tutti, che ha giocato a tutto campo, ora difendendo come si addice a un centrale di difesa; a centrocampo, come gli viene naturale perché questo ha fatto per una vita, il centrocampista e, infine, a dettare l’ultimo passaggio, vedi il gol mancato da Miccoli. Eppure, senza voler scomodare Shakespeare, tanto rumore per nulla: il Palermo ha sempre tenuto la palla, l’ha fatta girare sempre ad un pelo dall’erba, ma di gol o quasi gol, solo quello di Miccoli e, in parte, quello di Bertolo e, nel recupero, di Dybala.
E la beffa è proprio questa: che il Palermo gioca bene, da quattro partite mette sotto l’avversario e tuttavia resta lì, in fondo alla classifica. E martedì arriva il Milan e domenica ci tocca la Roma di Zeman. Insomma, un cammino che si fa sempre più impervio, una paura che serra la gola, ma la paura, si sa, si vince solo con l’applicazione, il sacrificio, la fiducia nelle proprie forze. E Gasperini tutto questo ce l’ha nel sangue e sa trasmetterlo ai suoi giocatori: basti vedere come ha saputo trasformare una difesa colabrodo (sette gol nelle prime tre partite) in una specie di bunker (inviolata nelle ultime due). E per il gol da fare, basta che Miccoli torni il campione che, davanti ai grandi avversari (quali sono Milan e Roma) non fallisce un colpo.