“Non condivido l’uso consumistico dei beni archeologici e comunque deve esserci un ritorno economico”. Google raduna a Selinunte la sua invincibile armata di vip e cervelloni. Spende migliaia di euro per sistemare la zona. Realizza un colossale e gratuito spottone per la Sicilia bella e sana, senza che si passi per forza dalla cruna dell’ago della mafia. Nel frattempo, Giusi Furnari – assessore ai Beni culturali – che fa? Critica. Stigmatizza “l’uso consumistico”, come si legge in una cronaca di ‘Repubblica’, salvo correggere il tiro tardivamente con una non meglio precisata lancia spezzata per il “ritorno economico” (individuabile a occhio nudo, in termini di marketing). Arriccia il naso, perché noi le meraviglie siciliane le preferiamo, a prescindere dalle dichiarazioni di principio, imbalsamate, diroccate, adatte per lo sfondo di una inarrivabile cartolina, messe lì a consumarsi, a disperdersi nei tempi dei tempi, a diventare macerie tra le macerie.
Isola di macerie è questa Sicilia. Macerie di uomini che annaspano come naufraghi, in cerca di una improbabile salvezza. Macerie di politica che si contorce su se stessa, come un gomitolo impazzito, senza più trovare un filo di senso, mentre salva guarentigie, argenteria e conto in banca. Macerie di antichità splendide, quando eravamo la pupilla gioiosa del mondo, che ci hanno lasciato il rimpianto di una grandezza scialacquata sulle spalle dei nani e pezzi di cose, cocci di luce, sparsi qua e là. Ora, nella vibrazione di protesta dell’assessore al ramo, c’è una piccola parte che ha un senso. Gli sponsor sono importanti se vivificano un bene culturale, se lo rendono oggetto di venerazione e di marketing, se, nel venderlo, non lo deturpano.
Se qualcuno intendesse costruire un fast food nel tempio della Concordia, sarebbe giusto cacciarlo immediatamente a pedate. Se qualcun altro volesse appropriarsi della leggenda di Colapesce – il ragazzo subacqueo che tiene in piedi la malandata Trinacria – convertendo il suddetto in ‘Coca Cola Pesce’, per ragioni di marchio, pagando un mucchio di denari sonanti, sarebbe fin troppo generoso affogarlo. Ma qui è diverso. A parte l’eccentricità, che è una caratteristica da ricconi, in fondo sopportabile, un pezzo mirabile di Sicilia è stato celebrato come cornice di un evento mediaticamente importante. Ciò comporta un ritorno di immagine a costo zero, uno spot che parla di noi e non tira in ballo per una volta la coppola e la lupara. Cosa ci sarebbe di più “economico”?
Possibile che l’assessore non l’abbia compreso? Forse sì. Esiste, sotto traccia, sorretta dalla proliferazione carbonara, una curiosa teoria dei beni culturali, una concezione radical-chic che detesta la popolarità, tutto ciò che mischia il basso e l’alto, l’archeologia e Lapo Elkann, tutto ciò che offre un reddito tangibile. Il bene culturale siciliano – secondo certi arcigni custodia dell’ortodossia – deve essere una pietraia, un deserto incastonato nell’assenza, una invisibilità custodita dal silenzio, avvolta in un sacro nulla. Maceria tra le macerie. Relitto di sassi, tra i relitti umani nell’iconografia del naufragio perfetto. Tutti felicemente alla deriva nell’Isola che si specchia nella sua bellezza sfiorita. E dimentica il passato. E maledice il presente. E non sa immaginare il futuro.