PALERMO – Una prima volta era finito sotto indagine sei anni fa. L’accusa rivolta a Nino Dina nell’inchiesta Eos del 2009, un ben più pesante concorso esterno, venne però archiviata quasi subito: sette mesi dopo la retata contro il clan di Resuttana, mentre per il suo compagno di partito Antonello Antinoro si profilava un processo giunto oggi al secondo passaggio in Corte d’Appello, Dina uscì senza macchie dall’inchiesta. Senza macchie e potente, anzi potentissimo: il radiologo che negli anni Ottanta conobbe nelle aule del Policlinico Totò Cuffaro e lo affiancò nella scalata al vertice della Regione è da 14 anni uno dei ras delle preferenze in provincia di Palermo e in questa legislatura siede sulla seconda poltrona più importante dell’Ars, quella di presidente della commissione Bilancio.
La sua carriera, però, iniziò una trentina di anni fa. Da un seggio al consiglio comunale di Vicari, suo paese natale, fino alla poltrona di primo cittadino dello stesso centro, raggiunta a soli 33 anni nel 1990. Gli anni successivi furono segnati dal salto di qualità: prima l’ingresso in giunta provinciale, poi, nel 2001, quando Cuffaro varcò la soglia di Palazzo d’Orléans, lo sbarco con una valanga di voti all’Assemblea regionale, dove è rimasto per 14 anni militando prima nell’Udc, poi nel Pid e infine di nuovo nel partito di partenza.
È negli anni trascorsi all’Ars che Dina è diventato un uomo-chiave della politica siciliana. Cuffariano più di Cuffaro stesso, amico e compagno di strada dell’ex presidente della Regione, con lui aveva stretto un’alleanza di ferro: fu il governatore di Raffadali a volerlo nelle liste del 2001 e fu lui stesso a chiedergli di guidare il gruppo dell’Udc nel 2004. Di più: fu anche a causa del “niet” di Raffaele Lombardo all’ingresso di Dina in giunta come assessore alla Sanità che le strade dei due predecessori di Rosario Crocetta si separarono nel 2009.
Non che gli incidenti di percorso siano mancati, nel frattempo. Il primo a tirarlo in ballo fu il collaboratore di giustizia Nino Giuffré, che nel 2005 lo dipinse come un uomo vicino ad ambienti mafiosi, ma le sue accuse non trovarono riscontro e, dopo essere finite ne “La mafia è bianca”, spinsero Dina a querelare gli autori del documentario e Michele Santoro. Appena pochi mesi dopo, però, il suo nome tornò negli atti giudiziari: in tasca al politico fu trovato il tariffario che Michele Aiello doveva far avere a Cuffaro, ma non furono accertati reati. Più di recente, invece, il nome di Dina – coinvolto nel frattempo anche nelle inchieste Giacchetto e “spese pazze” – finì negli atti dell’operazione “Grande passo”: il presunto mafioso Antonino Di Marco, perno dell’inchiesta su Cosa nostra in provincia di Palermo, fu visto entrare nella sua segreteria politica. “Sono in condizione di parlare con Nino Dina”, diceva intercettato Di Marco. “Non è mio referente”, commentò il politico. Nei confronti del quale, poi, non fu formulata alcuna accusa.
Arrivarono però le polemiche. Su tutte quelle del Movimento 5 Stelle, che già nel 2013 aveva chiesto l’autosospensione dei deputati coinvolti nel caso-Giacchetto, incluso appunto Dina, e che dopo le intercettazioni di “Grande passo” tornò a chiederne la test. Il presidente della Regione Rosario Crocetta, però, quando fu chiamato a giustificarsi per averlo accolto nella sua maggioranza, si limitò a un dato di fatto: “Quando si candidò nello schieramento che mi appoggia presentò un certificato che attestava il suo proscioglimento”. Già: il ras delle preferenze, lambito da mille inchieste, da tutte le accuse è sempre uscito senza macchie. Senza macchie e potentissimo.
Il presidente della commissione Bilancio è all'Ars da 14 anni. Più volte accusato, non è mai stato condannato. E Crocetta disse: "Per candidarsi presentò un certificato che attestava il proscioglimento".
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