PALERMO – I verbali dei collaboratori di giustizia e le indagini serrate della Procura stanno consentendo di ricostruire i segreti di alcuni recenti omicidi di mafia. Il mensile “S” in edicola dedica uno speciale ai killer, in libertà, degli omicidi Romano, Calascibetta, Di Giacomo, Nangano e Dainotti. Nel settembre del 2011 i killer attesero che Giuseppe Calascibetta rientrasse nella sua abitazione nella zona di Belmonte Chiavelli. Un pomeriggio dello scorso ottobre un rapinatore molto noto alla polizia si è presentato al commissariato Zisa. Si chiama Fabio Fernandez, ha 42 anni, e si è autoaccusato di avere fatto parte del commando che eliminò il capomandamento di Santa Maria di Gesù. La mafia che assolda un rapinatore e spacciatore per ammazzare un boss: il racconto aveva dell’inverosimile. Ed invece, giorno dopo giorno, la sua ricostruzione è diventata sempre più credibile. All’inizio sembrava che cercasse riparo dal suocero, preoccupato che non gli perdonasse una scappatella. Non ci si autoaccusa di essere un killer per nascondere un tradimento. Cosa racconta Fernandez? Assieme ad altre tre persone faceva parte del commando che crivellò di colpi Calascibetta a bordo della sua microcar. Conosceva l’identità della vittima e il suo ruolo in Cosa nostra, ma non il mandante dell’omicidio. Un suo amico gli aveva chiesto una mano per ammazzare il boss di Santa Maria di Gesù. Lui sapeva soltanto che c’era di mezzo una questione di soldi per una partita di eroina non pagata. Di recente sul tavolo degli agenti della squadra mobile è arrivata una nota dei servizi segreti: l’insospettabile rapinatore sarebbe davvero uno degli assassini. Gli ultimi interrogatori sono di poche settimane fa. Fernandez ha raccontato ai poliziotti di essere partito da via Cipressi, a due passi dalla chiesa e dalla catacombe dei Cappuccini. Erano in due e hanno attraversato la città in sella ad un rumorosissima motocicletta. È stato lui a sparare, mentre il complice guidava e altri due uomini si erano appostati sul luogo del delitto per dare il segnale dell’arrivo di Calascibetta. La motocicletta pro- seguiva in direzione opposta della vittima. Uno, due, tre colpi a bruciapelo. Poi, l’inversione di marcia e il colpo di grazia alla testa sparato dall’alto verso il basso e dunque compatibile con la ricostruzione del killer in moto che fa fuoco contro Calascibetta seduto al volante di una macchina piccola e bassa. Infine, la fuga seguendo un percorso che Fernandez ha ricostruito minuziosamente.
E poi c’è il particolare dell’arma usata per l’omicidio. L’uomo ha descritto le caratteristiche della pistola con cui ha fatto fuoco e che coincidono con le analisi dei poliziotti. Ci sono particolari che Fernandez non poteva sapere. Se davvero è stato lui ci si troverebbe di fronte a un omicidio di mafia affidato a chi mafioso non è. Potrebbe essere stata una strategia per allontanare i sospetti dai capimafia della zona – solo un capo può decretare la morte di un altro capo – o per depistare le indagini. A giudicare dal fatto che finora non sono stati individuati i colpevoli, si può dire che l’obiettivo sia stato raggiunto. A spezzare il silenzio attorno al delitto c’erano solo alcune intercettazioni. Non lo citavano per cognome. Parlavano di Peppuccio, u facciu i umma. È di Giuseppe Calascibetta, soprannominato faccia di gomma che Mario Marchese e Vincenzo Adelfio stavano parlando. Tra i suoi compiti c’era quello di mantenere in carcere Ruggero Vernengo, considerato uomo d’onore e scarcerato nel 2012: “Perché li aveva da lui i picciuli”. Subito dopo, pronuncia la frase che apriva uno squarcio: “.. su livaru in miezzu i pieri” (se le sono tolto dai piedi”). Seguita da un ulteriore chiarimento: “… ne ha combinato una appresso all’altra… si fotteva un po’ di soldi… tutti… ci hanno perso tempo…”. Eccolo, dunque, il possibile movente del delitto. Calascibetta avrebbe paga- to con la vita la pessima gestione dei soldi del clan. Adelfio raccon- tava un altro episodio: “Trentami- la euro… gliel’ho fatti dare io da questi di là… dalla pompa di ben- zina… diecimila euro là… li hanno persi… che se li sono fottuti lì sot- to… e gli altri venti se li è fottuti tutti lui…”. L’ammanco di denaro era stato riferito a Giuseppe Greco, arrestato successivamente con l’ac- cusa di essere il nuovo capoman- damento. Non solo, Calascibetta aveva imposto il pizzo ad una serie di personaggi di Belmonte Chiavelli: “… u Bonaciedda e compagni… u…u Castidduzzu e compagni gli davano i soldi”. E ora sono arrivate le dichiarazioni di Fernandez che sul piatto della sua credibilità ha messo anche una serie di rapine che erano rimaste irrisolte. È da qui che potrebbero arrivare i primi riscontri.
Sono state le microspie a svelare gli unici commenti sull’omicidio di Francesco Nangano. La sera del 16 febbraio 2013 i sicari lo uccidevano all’uscita di una macelleria di via Messina Marine. Gli intercettati erano Mariano Marchese e Gaetano Di Marco, titolare di un deposito di marmi e luogo dei summit del clan. Parlavano delle loro impressioni sul delitto: “… questo che hanno ammazzato?… un magnaccione … fimminaru… andava con cu e ghiè”. Nangano era stato pure avvisato: “Gli hanno bru- ciato… tutte cose”. Poi Marchese ipotizzava che per il delitto potesse essere stata necessaria l’autorizza- zione dei fratelli Graviano: “Può essere che fu un messaggio di Filippo… o di Giuseppe”. Forse l’au- torizzazione è davvero arrivata dal carcere, ma non dai Graviano.
Da Porta Nuova a Brancaccio ci sono killer spietati in circolazione. Gente affidabile che magari di recente ha ingrossato l’elenco degli scarcerati eccellenti e che si aggiunge a chi il grilletto lo ha premuto in provincia. Come Sergio Macaluso, pentito di Resuttana che ha parlato di due omicidi commessi a Partinico una decina di anni fa. Delitti che non sembravano avere neppure una matrice mafiosa. Ed invece la mafia c’entra. Eccome se c’entra. Una mafia che sa uccidere e restare in silenzio. Quando si corre il rischio del “fine pena mai” le bocche restano cucite. Sul mensile “S” in edicola tutti i particolari.