“Sai la storia di Rigoletto?” gli chiedo, mentre camminiamo verso il nostro tempio cittadino della musica. Si, perché è proprio un tempio laico il grande, bel teatro in fronte al quale sta scritto che “l’arte rinnova i popoli e ne rinnova la vita”. Mio figlio mi stupisce, dimostrandomi la padronanza di una storia melodrammatica antica e ricca, apparentemente lontana dal suo e dal nostro tempo. Sa di Rigoletto, e del Duca di Mantova, e di Gilda.
E camminiamo a passo svelto, che è già tardi; se “vano delle scene è il diletto, ove non miri a preparar l’avvenire”, allora recarsi al teatro è un rito doveroso, un obbligo civile, una strategia educativa, per sé, prima che per i propri figli. Questo mi dicevo, e mi affrettavo. Scremata dai virtuosismi narrativi dell’Opera, “Rigoletto” è la storia di un padre, che amando sbaglia. Un padre che ama perdutamente una figlia che è la sua stessa anima, l’unica ragione di vita per lui, ormai vedovo e stanco di rivestire gli scomodi panni di chi deve divertire a tutti i costi.
In una musica avvolgente che sa di carezze, un padre sbaglia, amando una figlia ma proteggendola in una prigione dorata, isolata da tutto e da tutti. Quanto è facile, per un padre, sbagliare amando troppo, amando male, pretendere in un possedimento esclusivo l’oggetto del proprio amore. E più ami, più vuoi proteggere; e più proteggi, più quel tenero fiore etereo tende a staccarsi, per volare via.
Ma il destino di un padre è di veder crescere i suoi fiori rigogliosi per lasciarli andare, alla fine, non per trattenerli. Com’è difficile invecchiare. Scremata a dovere, “Rigoletto” è la storia di un altro uomo, che sbaglia scivolando nell’amore volgare e immiserito di chi non vuole e non può veramente amare. Il Duca di Mantova è simile ai tanti uomini di ogni tempo, che sciupano amore per le donne, raccogliendo favori e piaceri senza misura e distribuendo illusioni di eternità ad alcune di loro.
E ne abbiamo incontrati, di leggeri farfalloni dell’amore facile, come il Duca di Mantova; ne abbiamo subito la cialtroneria, mentre, stupidi docenti della vanità, volevano insegnarci ad amare in superficie, ad amare ma non troppo, ad approfittare ed usare, perché “questa o quella, per me pari sono”. Questo pensavo, sugli acuti del tenore, sapientemente armonizzati tra imperiosità e sguaiatezza. Ne incontrerai anche tu, figlio mio; li riconoscerai tra un drink e una cravatta firmata, in un’auto bellissima o in una terrazza con un tramonto sul mare, abbronzati e sorridenti, e tra i loro denti bianchissimi passeranno frasi di scherno per le proprie donne, che non ameranno mai davvero.
Ma mio figlio non mi guarda, è immerso tra le note e le luci del palcoscenico; la musica, adesso, è più intrigante. Scremata da trame ed intrecci, c’è infine la storia di una giovane donna; un fiore, per un padre adorante. E ad un fiore non può accadere nulla di peggio del proprio sfiorire.
Succede che Gilda, puro e tenero fiore coltivato in una campana di vetro, si invaghisce del Duca, che con astuzia e perfidia la circuisce e la seduce. La purezza non può che sporcarsi, prima di morire. Tra mille intrecci, e inganni, e tradimenti, si srotola la matassa di una storia appassionante. Il destino prende la forma di una maledizione: questo è quello che soffre il povero Rigoletto, padre deriso e afflitto. E la trama, e l’avvolgersi melodico, e il canto sugli acuti, scorrono fra le strategie di violenti cortigiani e la spietatezza di un assassino; “Sparafucile” non è più il nome di un sicario, ma un comando, un imperativo, un ordine rivolto fatalmente proprio verso l’oggetto venerato del proprio amore.
Guardo mia moglie, poi mio figlio: la tensione blocca i movimenti e serra i denti. Il finale è un sordido epilogo drammatico. Tutti siamo negli occhi e nelle mani di quel povero padre che apre il sacco dove vuole trovare il frutto della sua vendetta, ma dentro c’è il suo piccolo fiore, reciso e appassito. Il pubblico assiste muto, rispettoso della tragedia che si consuma.
Guardo gli occhi della gente, qualcuno piange. L’arte che “rinnova i popoli” sta dando ancora una volta la lezione dell’amore perduto, e degli uomini illusi, da sempre vittime delle proprie eterne miserie. Uscendo dal teatro percorriamo le scale esterne che portano giù, verso la strada, verso la vita di tutti i giorni. Mi accorgo che siamo tanti. Molti sono i giovani; chi l’ha detto che non si riesce a staccare gli occhi dai cellulari e a non pronunciare che discorsi vuoti? Chi l’ha detto che non esistano più né sentimenti né cuori per accoglierli?
Anche loro hanno assistito alla lezione: in un “tre quarti” delizioso e sarcastico, no, la donna non è “mobile”, non è una “piuma al vento”; quanti errori si commettono per possedere, per amare male, distruggendo, nel tentativo disperato di rincorrere un’idea falsa di felicità. Guardo ancora mia moglie e mio figlio, mentre usciamo; “Andiamo a prendere qualcosa?” Che fortuna averli incontrati.