Borsellino, la lettera, il testamento | "Ma io oggi non la riscriverei..." - Live Sicilia

Borsellino, la lettera, il testamento | “Ma io oggi non la riscriverei…”

La lettera, la risposta scritta all'alba di quel tremendo giorno. Le ultime parole di Paolo Borsellino.

Immaginiamolo quest’uomo, nell’ultimo giorno della sua vita. Si è alzato all’alba, come fa sempre, perché ‘vuole fottere il mondo’ con qualche ora di anticipo. I figli dormono. Chissà se si prepara il caffè. Forse sì. Dopo mesi di lavoro intenso ha deciso di riposarsi almeno quella domenica, il 19 luglio 1992. Va verso la scrivania. Si ricorda, chissà se in quel momento, chissà se l’aveva preparata in anticipo, di una lettera che attende una risposta. Gliel’ha mandata qualche mese prima una ragazza di Padova, Sara Caon. Una missiva dai toni fiammeggianti che comincia così: “Gentile dottore Borsellino, le scrivo per manifestarle il disappunto degli studenti del liceo ‘Cornaro’, e mio personale, per la sua mancata partecipazione all’assemblea da noi organizzata”.

Sara è una ragazza di diciassette anni, vivace, informata e piena di passione civile. Un sentimento che trabocca e che diventa espressione di uno sfogo con il giudice da lei tanto ammirato. In quella missiva traspare la genuinità di un’anima che sboccia, che si è sentita ‘tradita’ da un silenzio. Aveva scritto a Paolo Borsellino, invitandolo a presenziare a un incontro in istituto. Che cosa è accaduto? E’ possibile che l’invito non sia mai giunto a destinazione, da qui la mancata replica. Il magistrato che morirà poche ore dopo in via D’Amelio prova a chiarire, punto per punto. Spiega che può esserci stato un disguido. Ci sono nove domande sollecitate dalla curiosità degli studenti di Padova. Nove caselle da riempire.

Paolo Borsellino inizia: “Oggi non è il giorno più adatto a risponderle perché frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata e io non ho più tempo da dedicare neanche ai miei figli che vedo raramente perché dormono quando esco di casa e al mio rientro in ora quasi sempre notturna li trovo addormentati ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare”.

E’ stanco, il giudice. La sua vita è un blocco di granito senza fessure. Ogni tanto, se gli riesce, scappa da Paolino, il barbiere, e si bea delle attese dei comuni di mortali, tra una rasatura e un taglio. E quando Paolino si mette a disposizione. “Dottore, la faccio passare…”, la replica è quasi una supplica. “Lasciami stare, non farmi fretta…”. Era proprio dal barbiere, il dottore Borsellino, quando seppe che Giovanni Falcone era stato ucciso, con moglie e scorta, sull’autostrada. E schizzò via dalla poltrona, con il sapone sul viso. Altre volte, sempre di domenica, Paolo Borsellino passeggia sul marciapiede davanti al suo palazzo. Cammina piano, osservando, come tutti, la sua ombra. Ha già smesso di accarezzare i figli, perché vuole abituarli a un distacco che avverte certo.

Quella mattina, un altro morso di normalità. Una lettera a cui rispondere. Proprio come succede ai comuni mortali. Il giudice scrive: “Entrai in magistratura con l’idea di diventare civilista. Fui fortunato divenni magistrato nove mesi dopo la laurea. Il 4 maggio 1980 uccisero il capitano Emanuele Basile e il consigliere Chinnici volle che mi occupassi dell’istruttoria nel relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio era arrivato il mio amico di infanzia Giovanni Falcone e fin da allora capii che il mio lavoro doveva essere altro..”.

Scrive ancora il giudice: “Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressoché esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista perché vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta”. Ma si è fatto tardi ormai. Paolo Borsellino abbandona la replica a metà. Si ferma al punto quattro. Ci sarà tempo per completarla.

Sara Caon, la ragazza di allora, oggi donna, racconta: “Non sono mai stata fiera della mia letterina. Era abbastanza screanzata e adesso non la riscriverei più. Non sono io – aggiunge con una modestia che le rende onore – la parte importante della vicenda. Lo è senz’altro il giudice Paolo Borsellino che, pure in quella occasione come nel resto, dimostrò di essere un grande uomo, nella corrispondenza a un interlocutore che gli aveva scritto con tanta petulanza. Non ho mai cercato visibilità e non ne voglio”. Eppure, fu grazie a quella ‘ragazzina screanzata’ che quel profondo lascito venne redatto. “Ritrovammo la lettera sulla scrivania di papà – racconta Manfredi Borsellino – la consideriamo un po’ il suo umanissimo testamento spirituale”.

Di quella lettera si è già narrato, ma è tornata all’attenzione, soprattutto social, quando Giovanni Paparcuri, che fu stretto e fidato collaboratore di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ha pubblicato un post sul suo profilo facebook: “Manfredi Borsellino, che qui ringrazio pubblicamente, ci ha fatto pervenire, per esporla al bunkerino (lo spazio della memoria a Palazzo di giustizia, ndr), la copia della lettera originale che scrisse il 3 febbraio 1992 la studentessa, Sara Caon, al dottore Borsellino. Quest’ultimo cominciò a scrivere la risposta la mattina del 19 luglio 1992, poche ore prima della strage di via D’Amelio”. Ed è giusto rimettere ancora, una volta di più, insieme i pezzi della storia e di memorie che tanti, nel corso degli anni, hanno custodito con dedizione.

Immaginiamolo Paolo Borsellino, all’alba del suo ultimo giorno, mentre afferra la giacca e si appresta a uscire da casa. Ha risposto a tre punti su nove. Deve affrontare il quarto, quando ritornerà. Sul foglio, il segno che rimane è proprio un ‘quattro’ circondato da una parentesi, come in attesa. Sotto si stende l’immensità di una pagina in bianco. Tutta la vita che non c’è mai stata.

 

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