CATANIA – La mafia tenta di fare il salto finanziario e di investire i capitali illeciti nell’economia (a prima vista) legale. A Catania l’ambizione imprenditoriale dei boss di Cosa nostra è un fatto accertato e raccontato dai processi e dalle sentenza che hanno fotografato gli assetti criminali alle falde del Vulcano più alto d’Europa. Non solo un modo di riciclare e ripulire il denaro, ma anche di allontanare le pressioni della magistratura. Le operazioni economico-finanziarie si mimetizzano e sono meno appariscenti dei crimini che creano allarme sociale, come i delitti di sangue, le rapine, lo spaccio. Questa è strategia dell’immersione di cui gli studiosi e gli investigatori della Direzione Investigativa Antimafia parlano da almeno un decennio riferendosi agli assetti della criminalità organizzata catanese.
E’ un nuovo modo di operare e di pensare il crimine. Il Gip di Messina, nell’operazione Beta, l’ha definita Cosa nostra 2.0. I boss che invece di utilizzare la rivoltella usano la rete di conoscenze imprenditoriali, politiche e criminali per arricchire le casse della cosca. Ma dietro resta il nome altisonante della famiglia mafiosa che incute timore, terrore, intimidazione, paura e piega all’asservimento.
Ammonta a milioni di euro il patrimonio imprenditoriale strappato alle mani dei manager della mafia catanese negli ultimi anni. Dai Mazzei, ai Santapaola-Ercolano ai clan Cappello. La Dia, i Ros, la Guardia di Finanza e la Polizia ha svolto indagini patrimoniali che hanno portato a fotografare evidenti sperequazioni che nascondevano investimenti di soldi sporchi. Sequestri penali e misure di prevenzione hanno permesso di colpire direttamente le riserve finanziarie della criminalità organizzata.
Dalla ristorazione, ai locali notturni, alle discoteche fino alle imprese di trasporti e di gestione di rifiuti. Pare non esserci settore dove i clan etnei non abbiano cercato di diventare i leader mafiosi, creando scompensi nel mercato e favorendo una concorrenza sleale dagli effetti ancora più pesanti in un periodo di crisi economica come quello che vive l’Occidente.
Sono i processi Iblis e Caronte che hanno permesso di portare alla luce le connivenze tra mafia e imprenditoria (molte volte con l’avallo della politica). I Santapaola-Ercolano sono riusciti a infiltrarsi in grandi appalti, in affari milionari della piana di Catania e del mondo imprenditoriale calatino. Nomi altisonanti del management dell’isola e non solo hanno sfilato nelle aule del Tribunale di Catania per rispondere alle domande dei pm sui presunti legami tra crimine e imprenditoria.
L’operazione Scarface della Guardia di Finanza ha scavato nella capacità imprenditoriale della cosca dei Mazzei. Un’ambizione criminale che sfocia nella plateale esuberanza di Willam Cerbo, con il trono stile Scarface. Da qui il nome del blitz che però non si completò con l’arresto del boss Nuccio Mazzei, che poi fu catturato dopo un anno e mezzo di latitanza dalla Squadra Mobile di Catania.
I Cappello invece avrebbero un imprenditore direttamente nel loro organigramma criminale. Giuseppe Guglielmino, titolare di diverse aziende del settore dei rifiuti, sarebbe riuscito a conquistare appalti in Calabria, riuscendo anche ad avere il placet della ‘Ndrangheta. Guglielmino è stato arrestato nella retata Penelope che ha disarticolato la nuova cupola dei Cappello ed è stato destinatario di un sequestro disposto dal Tribunale Misure di Prevenzione.