CATANIA – Quando Gino Ilardo fu ucciso lo Stato perse una delle voci che potevano portare a vincere la battaglia contro la mafia. Il 10 maggio 1996 in Via Quintino Sella a Catania, intorno alle 21, il confidente di Michele Riccio scende dalla sua Mercedes e prima che potesse entrare a casa venne ucciso. Quella voce fu messa a tacere. Un delitto eccellente, il cui eco arrivò fino all’orecchio dei Capi di Cosa Nostra palermitana passando dai vertici della famiglia reggente di Caltanissetta. Un omicidio eccellente perché Luigi Ilardo, detto Gino, era il cugino del boss di Caltanissetta Giuseppe Piddu Madonia ed era colui che aveva messo i Ros sulle tracce del padrino Bernardo Provenzano, senza dimenticare che pochi giorni prima del delitto aveva manifestato l’intenzione di diventare collaboratore di giustizia. La procura di Catania, da circa due anni, ha riaperto l’inchiesta ed è arrivata a identificare mandanti e componenti del gruppo di fuoco che tesero l’agguato in Via Quintino Sella al cugino di Piddu Madonia. La Squadra Mobile di Catania ha eseguito un ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal Gip Marina Razza nei confronti di Giuseppe Madonia, 67 anni, Maurizio Zuccaro, 52 anni, ritenuti il primo mandante e il secondo organizzatore, e Orazio Benedetto Cocimano, 49 anni, come uno dei componenti del gruppo di fuoco. (Accusati di far parte del gruppo di killer anche Piero Giuffrida e Maurizio Signorino, uccisi per mano mafiosa, e una quarta persona non identificata).
La svolta nelle indagini arriva nel 2010: un testimone oculare avrebbe assistito all’uccisione di Gino Ilardo. Eugenio Sturiale, diventato collaboratore di giustizia proprio in quel periodo, racconta nei minimi dettagli i momenti di quel delitto di cui è testimone involontario, in quanto nel 1996 abitava in un palazzo ubicato vicino alla scena del crimine. Sturiale, la sera del delitto, stava tornando a casa (ed era anche di gran fretta, perché essendo sorvegliato speciale doveva rientrare entro le 21) quando si accorge della presenza di Maurizio Signorino e Benedetto Cocimano. Soggetti che il collaboratore conosceva bene essendo stato esponente del Clan Santapaola prima di traghettare nel gruppo dei Cappello. Sturiale cambia strada cercando di non farsi vedere, poi nell’angolo tra via Quintino Sella e Via Mario San Giorgi arriva una Mercedes con a bordo Gino Ilardo, che scende dalla macchina e – sempre secondo la ricostruzione del collaboratore – si avvicina a Piero Giuffrida. Pochi secondi e all’orecchio di Sturiale arriva il rimbombo inconfondibile di ben sei colpi di pistola, poi il suono di due motociclette che si allontanano. Una versione che viene confermata anche dalla moglie di Sturiale, anche lei diventata collaboratrice, Palma Biondi che racconta quanto gli aveva riferito il marito rientrando quella notte. Elemento probatorio la cui attendibilità è evidenziata dal fatto che Sturiale aveva già raccontato di aver assistito all’omicidio di Luigi Ilardo nel 2001 al sottoufficiale della Dia Mario Ravidà. Le persone identificate da Sturiale sono tutte riferibili al gruppo di fuoco di Maurizio Zuccaro (arrestato come mandante). Occorre sottolineare che nei giorni precedenti all’omicidio il collaboratore aveva già visto aggirarsi nella zona Signorino, ma anche Santo La Causa.
L’inchiesta viene avviata: i sostituti Pasquale Pacifico e Agata Santonocito, diretti dal procuratore Giovanni Salvi, sviscerano in uno dei gialli della storia mafiosa degli anni 90. Il fascicolo si arricchisce di importanti dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia come Natale Di Raimondo, Calogero Pulci, Giovanni Brusca, Antonino Giuffrè e Carmelo Barbieri. Fondamentali anche le lettere e le fono registrazioni di Michele Riccio raccolte durante gli anni in cui Ilardo era confidente dell’ufficiale dei Ros: da questo emerge il profilo, lo spessore criminale e le conoscenze all’interno di Cosa Nostra della vittima. Il cugino del boss Giuseppe Piddu Madonia aveva legami diretti con Bernardo Provenzano, prova ne è il famoso incontro del 31 ottobre 1995 a Mezzojuso (come emerge nel processo contro il generale Mori).
Dalle diverse dichiarazioni, tra cui le più recenti di Santo La Causa, la Dda riesce a identificare mandanti ed esecutori. L’ordine parte dal carcere direttamente da Piddu Madonia che delega i Santapaola. In quel periodo è in corso il processo Orsa Maggiore, si ipotizza che il boss di Caltanissetta e Enzo Santapaola (che fa da cerniera con l’esterno) siano riusciti a comunicare durante le udienze. Il messaggio di uccidere arriva nelle mani di Santo La Causa, ma Maurizio Zuccaro era stato già informato. L’ex reggente operativo del Clan Santapaola è coinvolto nell’organizzazione del delitto, tanto che partecipa anche ad alcuni sopralluoghi vicino l’abitazione di Ilardo, nella fase esecutiva però – come riferisce il collaboratore stesso – viene improvvisamente scavalcato: “Scoprirò da Cucimano che il lavoro era stato già fatto”. Un’accelerazione improvvisa e quasi ingiustificata. Per motivare quel delitto si diffuse la voce nel clan che Gigi Ilardo era coinvolto nell’omicidio dell’avvocato Famà, delitto collegato all’epoca secondo la criminalità organizzata alla morte di Carmela Minniti (moglie di Nitto Santapaola). Oltre a questo, il delfino della famiglia di Caltanissetta fu accusato di aver trattenuto indebitamente i proventi delle estorsioni alle acciaierie Megara Ragioni che però, da come emerge dagli interrogatori ai collaboratori, servivano “quasi a depistare” il vero movente, e cioè che si era scoperto che Ilardo era un confidente. La velocità e la coincidenza dell’approssimarsi a collaborare della vittima, però, ha creato dei sospetti nella magistratura: Cosa nostra aveva scoperto che Ilardo era un confidente e voleva ucciderlo, ma il piano era quello di tenderlo in un agguato e addirittura di torturarlo per far raccontare quello che aveva spifferato agli “sbirri” (un caso di lupara bianca), ma all’improvviso sapendo che avrebbe collaborato con la giustizia è stato deciso che doveva essere ucciso subito e in qualsiasi modo. Dalle indagini è stato identificato anche Enzo Santapaola (figlio di Salvatore) che avrebbe avuto il ruolo di cerniera, la richiesta su questo indagato non è stata accolta dal Gip, ma i pm sono pronti a presentare ricorso al riesame.
Fascicolo sui mandanti occulti. Presi i presunti mandanti e i killer che uccisero Gino Ilardo la procura di Catania, guidata da Giovanni Salvi, vuole andare oltre e identificare chi ha permesso “quello spiffero” (come lo ha definito il collaboratore Giovanni Brusca) dalle mura delle istituzioni alle carceri del 41 bis dove veniva informata Cosa Nostra che il cugino di Piddu Madonia, “era sbirro” e presto sarebbe diventato collaboratore di giustizia. Un fascicolo è stato aperto per identificare i mandanti occulti dell’agguato di Via Quintino Sella del 10 maggio 1996. L’indagine, che oggi ha portato all’esecuzione dell’ordinanza alla Squadra Mobile, è solo la base di un inchiesta che potrebbe scavare in quella “zona grigia” che legherebbe Stato e Mafia. Le risultanze investigative infatti aprono squarci verso questa direzione, ipotizzando con “logica ineludibile” che l’uccisione del confidente “era stata posta in essere per evitare che iniziasse a collaborare con la giustizia” e che di questa sua intenzione “erano stati informati i suoi mandanti”, tanto che il delitto viene “progettato e eseguito in un ristrettissimo arco temporale”.
Ilardo è una delle figure chiavi della requisitoria del Pm Nino Di Matteo nel processo a carico degli ufficiali dei Ros Mori e Obinu: il vertice della famiglia di Caltanissetta era la fonte Oriente di Michele Riccio che nel ’95 aveva fornito elementi utili per catturare Bernando Provenzano, ma per “ragioni” ancora poco chiare l’irruzione a Mezzojuso non scattò e il padrino rimase latitante. Per il procuratore di Palermo questo accadde proprio perché “c’era una trattativa, e negli accordi era previsto che Binnu dovesse rimanesse libero”. Gino Ilardo con le sue dichiarazioni, dunque, poteva ferire mortalmente il cuore della cupola di Cosa Nostra. Tappargli la bocca poteva già essere nei piani dell’organizzazione criminale, ma quello che crea interrogativi è l’improvvisa accelerazione nell’esecuzione nel delitto avvenuto proprio pochi giorni dopo l’incontro a Roma dove Luigi Ilardo – come racconta Michele Riccio nel corso del suo lungo interrogatorio nel processo in corso a Palermo – “Il 2 Maggio del 1996 davanti all’allora procuratore di Caltanissetta Gianni Tinebra e ai pm Giancarlo Caselli e Teresa Principato disse di voler collaborare con la giustizia”. Tutto non fu formalizzato quello stesso giorno, ma rimandato di 15 giorni. Luigi Ilardo, però, morirà prima.