Un groviglio di lamiere, dove pochi elementi sono riconducibili alla Fiat Croma bianca che il 23 maggio 1992 precedeva l’auto in cui si trovavano il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e l’autista Giuseppe Costanza. Al suo interno c’erano gli uomini de “la Quarto Savona Quindici”, il nome in codice della squadra a cui era affidata la tutela del magistrato: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.
Nel giorno della memoria a Palermo, un ricordo va anche a loro, agli “angeli custodi” di Falcone la cui macchina fu investita in pieno dalla deflagrazione, al punto da essere sbalzata in aria. Per la prima volta, oggi, quel che resta di quell’auto è stato esposto al pubblico a due passi dalla stele che ricorda le vittime della strage, a Capaci. L’associazione Quarto Savona Quindici, presieduta da Tina Montinaro, vedova del caposcorta del giudice, Antonio, ha chiesto ed ottenuto dal capo della polizia, Antonio Manganelli, che l’auto venisse mostrata nel giardino della memoria nei pressi del monumento.
“E’ giusto che i cittadini vedano che fine ha fatto mio marito insieme ai suoi colleghi, ed io per prima, guardandola, mi rendo conto che di Antonio non è rimasto nulla. Sia lui che gli altri ragazzi, in questo giorno, sembrano degli “innominati”, invece devono essere ricordati perché la loro dedizione nei confronti di Falcone era unica”. L’auto, inizialmente coperta dal tricolore, è stata scoperta dai colleghi di Montinaro: “Ho voluto che fossero loro a farlo perché almeno lo fanno col cuore. Ogni anno assistiamo a troppe passerelle, presenzialismi veloci a cui io non sono interessata. Il presidente del Consiglio Mario Monti, ad esempio, è andato alla stele ma non qui al giardino; forse non lo ha ritenuto opportuno. So soltanto che con me vivrà sempre il ricordo di mio marito, della sua passione nei confronti di un lavoro che amava, forse anche troppo. Quel giorno, prima di andare col giudice, salutò me e i bambini affettuosamente, come faceva sempre. Fu l’ultima volta che lo vidi”.
A muovere quel tricolore dalla teca che contiene i resti della Croma, Luciano Tirindelli, “sopravvissuto” per un banale scambio di turni. Quel giorno doveva essere lui tra gli uomini della scorta, proprio al posto di Montinaro: “Convivo con la certezza che tutto quello che è successo ad Antonio doveva succedere a me. Ogni anno rivivo quello stesso dolore. Lui era un amico prima che un collega. Lavoravamo con dedizione, amore, perché stare accanto a Giovanni Falcone per noi non era un sacrificio. Lui mi diceva sempre che per il giudice sarebbe stato pronto a dare la sua vita stessa, è così è stato.
Ma anche Vito Schifani era un fedele compagno di lavoro. Era un ragazzo che amava la vita e di una simpatia straordinaria, lo stesso vale per Rocco: anche se l’ho conosciuto di meno perché non abbiamo passato molto tempo insieme, era stato un piacere accoglierlo in squadra. Il sacrificio di Falcone e dei miei compagni non dovrà mai diventare inutile, che questa auto sia la dimostrazione di quello che la mafia riesce a fare. Non deve più avere i mezzi per riuscirci”.