PALERMO – La partita è finita da un pezzo, sigillata dal quarto gol, siglato da Parolo con un diagonale chirurgico; d’intorno avverto e sento paroline dolci e pacche sulle spalle: “Dai, Benvenuto, non fare così”. I giovani colleghi ormai mi conoscono bene, sanno che esagero nella gioia quando va bene e nella tristezza quando va male e fanno di tutto per farmi sentire la loro solidarietà. Mi commuovo, ma loro non se n’accorgono perché io sto imparando a gestire meglio le mie emozioni: certo è una faticaccia, ha poco o niente a che spartire con la mia natura assai malinconica, ma mi sembra dignitoso evitar loro di preoccuparsi per me. Così, lentamente, tutta la fila della tribuna stampa dove sto io, si svuota e io resto solo, come desidero ardentemente dal triplice fischio dell’ineffabile arbitro Di Bello. E ieri, quando quel Di Bello ha fischiato la fine, era un momento così: volevo star solo, non vedere e sentire nessuno, per capire qualcosa di quel che era appena capitato. Perché mi sfuggiva il suo significato intrinseco e quando non capisco – ciascuno ha la sua soglia di accesso all’umana comprensione – sto male, sono in lotta con me stesso, come fosse esclusivamente colpa mia.
Cos’era successo nei novantacinque minuti della partita, finita in goleada per la Lazio? Di solito, quando si perde in casa 4-0 vuol dire che una squadra ha dominato e l’altra ha subito supinamente; di solito, quando si perde in casa 4-0 la squadra ospite ha dato una severa lezione di calcio all’altra; di solito, quando si perde 4-0 fra le mura amiche, con tutto lo stadio che ti riempie d’amore, vuol dire che non ce la fai, sei inadeguato e hai dovuto cedere allo strapotere avversario. Ecco la domanda che, rimasto da solo e con la testa fra le mani, mi faccio senza tregua e senza trovare risposta degna. Anzi, no: le risposte sono tante, ma tutte lontane dalla gelida verità di quel 4-0. Perché il Palermo ha giocato alla grande almeno per un’ora abbondante, offrendo qua e là scampoli di calcio sublime, quale l’irresistibile serpentina di Vazquez al 39’ del primo tempo, che lo ha portato a tu per tu con Marchetti per chiudere con un diagonale che ha sfiorato il palo, a portiere nettamente battuto e, due minuti dopo, quando, su verticalizzazione di capitan Barreto, Dybala si invola palla al piede, supera in dribbling un paio di avversari ed entra in area: qui viene come ipnotizzato da Marchetti, che gli si fa incontro con piglio deciso e lo costringe ad accelerare la conclusione. Che gli muore fra le braccia. Peccato. Un lunghissimo “Oh”, ululato da tutto lo stadio mi passa da parte a parte e penso che il giorno in cui per me finirà questo tipo di emozioni, forse tutto il resto avrà il sapore di una minestra riscaldata.
Ma così è il calcio, un mistero impenetrabile che si fa beffe di previsioni e tattiche e va per la sua strada: sempre. Infatti, al 44’, proprio mentre sta per finire il primo tempo, Candreva ha uno spunto dei suoi; si beve il povero Lazaar (mai visto confronto più impari) e crossa come lui sa fare: forte e teso. La palla giunge nell’area di Sorrentino che si getta e la farebbe sua se un rimbalzo malandrino non gliela soffiasse davanti agli occhi: il tocco finale in gol di Djordjevic è pura formalità. E si va al riposo in svantaggio, quando per quanto fin lì accaduto si dovrebbero pretendere almeno un paio di gol a favore del Palermo, quello di Vazquez e l’altro di Dybala. Ovvero dei due gioielli rosanero, la cui rinascita imperiosa, dopo un biennio di buio quasi assoluto, va attribuita esclusivamente al grande lavoro di mister Iachini. I parlottii dell’intervallo sono tutti improntati su un’unica direzione: in serie A non si possono fallire le occasioni da gol perché si viene puntualmente puniti”. E ancora: “Però abbiamo tempo e forze per rimediare e rimedieremo”. Anche perché la magnifica curva Nord (e non solo, perché è imitata da tutto lo stadio) non ha smesso un solo istante di cantare. “Noi vogliamo questa vittoria”, sventolarle bandiere e far brillare le luminarie, il che è una novità di serata. Ed infatti il Palermo entra in campo deciso con la furia di un cavallo cui all’improvviso vengano tolte le briglie. Ed è sempre Dybala a menar le danze, il piccolo, gracile argentino che, dopo una lunga sofferta maturazione, finalmente mostra di che pasta è fatto così da giustificare quei famosi, pesantissimi (per lui) dodici milioni di costo del cartellino. Non lo tiene nessuno fra i molossi della difesa laziale e lo picchiano sistematicamente, ma lui si rialza sempre e ricomincia.
Ha già capito che Di Bello non ci pensa neanche ad ammonire i suoi marcatori, anzi, dopo l’ennesimo ruzzolone, non solo non gli fischia punizione a favore ma gli si avvicina e, col ditino puntato, in pratica gli ordina di non fare più il cascatore. Incredibile, ma così è. Lo hanno visto i quasi ventimila dello stadio e i milioni davanti alla tv. Ma il “principito” ormai è un giocatore vero, non si smonta solo perché l’arbitro lo maltratta, anzi, si carica di più e al 4’, dopo l’ennesimo uno-due con Vazquez, calcia forte di sinistro e sembra gol ma in porta, nella Lazio, c’è il redivivo Marchetti, che ha voglia di riscatto e non sbaglia un colpo.
Poi esce Candreva, che è la solita iradiddio, anche per la flebile opposizione di Lazaar, ed entra Anderson e mi scappa un sospiro di sollievo: “Bravo Pioli – penso – Togli il più forte dei tuoi, ora possiamo respirare”. Non sapendo ancora che sarà proprio Anderson ad ispirare il secondo e il terzo gol laziale. Uno al 29’ e l’altro al 37’, e Sorrentino non può farci proprio nulla. Anzi, poco prima dello 0-2 salva prodigiosamente con due interventi felini, sempre e comunque sullo scatenato Djordjevic. E, allo scoccare del terzo gol laziale, si leva dalla curva Nord un coro struggente che riscalda il mio vecchio cuore rosanero: “Beppe Iachini… Beppe Iachini”. Il nostro, ormai, ma già da anni, è uno dei migliori pubblici da stadio che esiste in Italia: competente e signorile. E ieri lo ha ampiamente dimostrato, prima col coro dedicato a Iachini e alla fine con l’applauso lungo, caloroso e commosso alla squadra che, tutta insieme, è corsa sotto la curva per salutare e ringraziare di tanto amore i tifosi.
Mi colpisce, prima di chinarmi e desiderare di restar solo, una scena: Dybala che va a a salutare il suo aguzzino, l’arbitro Di Bello e questi che gli mette una mano sulla spalla. Distinguo da lassù, da dove io guardo la partita il suo labiale: “Bravo Dybala, complimenti”. Cornuto e mazziato, verrebbe da pensare. E forse proprio per questo non ho trovato di meglio che mettermi le mani fra i capelli. Ma quando, dopo una mezzora buona mi sono riavuto dallo sconforto, mi son detto: “Presto ci riprenderemo il maltolto, perché noi giochiamo al calcio e il gioco alla lunga paga. Sempre”. Solo una speranza? Io dico di più, è quasi una certezza.