PALERMO – “Non dobbiamo avere paura, anche se ci attende una crisi difficile, e la Chiesa è pronta a continuare a fare la sua parte. L’unico pericolo che corriamo è quello dell’egoismo”. E’ un messaggio di speranza quello che monsignor Corrado Lorefice affida tramite Livesicilia ai palermitani nel giorno del Festino di Santa Rosalia, anche se l’atmosfera non sembra quella della festa: le misure anti-Covid hanno fatto saltare la tradizionale processione laica della sera, così come non si terrà quella di oggi per le vie del centro con l’urna argentea della “Santuzza”. L’arcivescovo di Palermo, a quasi cinque anni dal suo arrivo, traccia un bilancio della sua esperienza: “La Chiesa è cresciuta, la città è cambiata anche se ci sono ancora segnali inquietanti come l’attacco alle scuole. La mafia e la Chiesa sono incompatibili, come ha confermato Papa Francesco, non si possono tenere in mano la lupara e il vangelo”.
Eccellenza, quello di quest’anno è un Festino “anomalo”, qualcuno l’ha addirittura definito un “Festino senza festa”…
“Un Festino senza festa esterna, semmai, ma non può esserci festa all’esterno se non c’è quella del cuore. La situazione particolare che stiamo vivendo ci invita a interiorizzare maggiormente, specie dopo la pandemia e i suoi effetti anche dal punto di vista esistenziale. Quest’anno il Festino di Santa Rosalia ci consentirà di fare un itinerario più spirituale, nella gioia ma senza alienazioni, portandoci in profondità per ripensare al significato più vero del messaggio attuale di una donna, una cristiana, una santa come Rosalia. Lei che lascia la corte e si ritira sul monte su cui i palermitani si recano a venerarla e lì, in una vita di interiorità e separazione, passa i suoi giorni e intercede dopo la sua morte, nel 1624, per la sua città. Anche nel 2020 abbiamo avuto Rosalia come compagna, in Cattedrale l’ho invocata come ‘liberatrice di una città in balìa della peste’: insomma, ci sono tutti i presupposti per una vera festa del cuore”.
In autunno si annuncia una crisi economica e sociale molto difficile, con numerosi licenziamenti, e ci sono settori come il turismo in grande difficoltà. Cosa devono aspettarsi i palermitani?
“Palermo e la Sicilia avevano già ferite sociali ed economiche, a cui adesso si sommeranno le conseguenze del lockdown che toccheremo con mano: tante famiglie, ma anche le imprese, si troveranno in difficoltà, così come il settore del turismo. Però perfino nel pieno della pandemia abbiamo potuto cogliere il profondo senso di solidarietà in coloro che erano impegnati nelle strutture sanitarie, nelle parrocchie, nella Caritas, nelle realtà di volontariato: anche nei prossimi mesi saremo chiamati a una solidarietà creativa che aiuti tutti a fronteggiare la crisi economica. Specie chi ha responsabilità di governo, in questo momento, dovrà avere una capacità di lettura della realtà e di progettazione nel lungo termine, usando anche le risorse che arriveranno dall’Europa. Non basterà fronteggiare solo i bisogni immediati di una povertà di ricaduta, servono risposte di ampio respiro che consentano il rilancio dell’economia e del mondo produttivo. Non illudiamoci, sarà un periodo di ricostruzione come quello successivo alla Seconda guerra mondiale, per questo serviranno uomini e donne di buona volontà, dotati di lungimiranza e onestà intellettuale, che sappiano fare rete per trasformare una situazione negativa in un’occasione di rilancio”.
In tanti hanno paura del domani…
“Proprio a partire dal Festino di Santa Rosalia dico a tutti che non dobbiamo avere paura, non può non esserci un futuro. L’Italia è sempre riuscita a superare le crisi, l’unico pericolo è semmai che ognuno si chiuda in se stesso e pensi da egoista. Questa fase ci chiede di riscoprire il senso della comunità, mettiamo da parte le esigenze particolari e guardiamo al bene comune. La famosa frase “ce la faremo” non deve essere semplice retorica, ma un vero programma di vita che impegna ciascuno di noi, non solo le istituzioni. Ognuno deve fare la sua parte, guardando con speranza al futuro: chiediamo l’intercessione di Santa Rosalia che oggi chiede a ciascuno di impegnarsi”.
Quale sarà il ruolo della Chiesa palermitana?
“Anzitutto, voglio ringraziare la Caritas diocesana e le nostre comunità parrocchiali per quanto hanno fatto in questo tempo così difficile del lockdown. Le parrocchie sono state un toccasana per molte situazioni, con un’opera che ha raggiunto capillarmente le famiglie, specie quelle che erano già in difficoltà perché senza lavoro o con un lavoro in nero. Superato il primo momento dell’emergenza, le parrocchie adesso hanno bisogno di saper leggere il territorio, di elaborare risposte che abbraccino un arco temporale più lungo, rimanendo in prima linea e collaborando con tutti, a iniziare da coloro che sono al servizio delle città degli uomini. Una Chiesa prossima, vicina al territorio, che fa la sua parte per offrire risposte strutturali e non solo interventi di primo soccorso”.
Ormai siamo pienamente nella Fase 3, con un graduale ritorno alla normalità. Persino sui mezzi pubblici non è più obbligatorio mantenere le distanze, mentre nelle chiese e nei luoghi di culto vigono ancora regole molto stringenti. Si aspettava maggiori concessioni da parte delle istituzioni?
“Le nostre comunità cristiane hanno dimostrato un grande senso civico, si sono assunte la responsabilità di abitare nelle città degli uomini e quindi sono state fedeli nel rispettare le norme di prevenzione. Una cosa che voglio sottolineare e per la quale sento di ringraziare tutte le comunità che hanno comunque fatto una grande fatica, penso alla mancanza del culto pubblico o a cosa ha significato l’attuazione del distanziamento sociale nelle celebrazioni liturgiche. Detto questo, è chiaro che ci sono cose che saltano agli occhi: su un autobus si può stare ammassati e in chiesa no? C’è bisogno di una rinnovata assunzione di responsabilità, limitiamo gli eccessi ma per esempio consentiamo altre cose: se una chiesa è abbastanza grande per accogliere più di 200 persone, perché non farne entrare di più? La Conferenza episcopale italiana si confronta in modo costante con il Governo e con il ministero dell’Interno, si possono prendere in considerazione altre aperture e nuove possibilità, a maggior ragione perché abbiamo dimostrato di essere responsabili. Però sento di dover fare un appello”.
Quale?
“Non dimentichiamo che il Coronavirus è ancora in mezzo a noi, dobbiamo continuare ad avere una grande intelligenza, non facciamo come i bambini che dopo un giorno di punizione tornano a fare quello che facevano prima. Bisogna usare lungimiranza e lucidità, non sappiamo cosa accadrà in autunno ma facciamo tutto il possibile pensando che il virus ci costringe ancora a una grande disciplina”.
Fra qualche giorno Palermo ricorderà la Strage di via D’Amelio: in questi cinque anni ha notato qualche cambiamento in Palermo? E che ruolo può svolgere la Chiesa nella lotta alla mafia?
“La visita di Papa Francesco, il 15 settembre 2018, ha segnato una rinnovata consapevolezza della comunità cristiana nel dichiarare che le organizzazioni mafiose e criminali sono anti evangeliche. Nessuno può tenere in mano la lupara e il vangelo e su questo c’è chiarezza. Ma il Papa ci ha anche aiutato a leggere questa realtà in modo evangelico: il magistrato fa una lettura giuridica della realtà, così come il giornalista o il politico fanno la loro, ma noi cristiani partiamo dal vangelo e qui si inserisce il magistero di don Pino Puglisi che non era un prete antimafia ma ha fatto antimafia. Ha annunciato il vangelo che dice anzitutto che noi uomini abbiamo una grande vocazione: esprimere quel potenziale di bene che ognuno di noi porta dentro, a maggior ragione se cristiani. Dopo la visita di Papa Francesco ho scritto un libro che si intitola ‘Siate figli liberi alla maniera di Pino Puglisi’. Ho coscienza che la nostra Palermo, dopo gli anni Ottanta e Novanta, ha maturato una nuova consapevolezza, è riuscita a rialzarsi. Certo, la mafia non è sconfitta, trova altri linguaggi e altre vie e non bisogna abbassare la guardia, c’è un lavoro culturale da fare e anche qui ognuno di noi è chiamato a mettersi in gioco. Sempre di più dobbiamo sentire la responsabilità nella costruzione della città degli uomini nel segno della legalità, un impegno al bene comune che riguarda tutti. Da cittadini dobbiamo aiutare le istituzioni perché quello che è accaduto non accada mai più: noi siamo la Palermo del ‘Sacco’, la Palermo che uccide uomini come Falcone e Borsellino, che conosce le commistioni anche con uomini delle istituzioni. Allora ogni cittadino deve avere consapevolezza politica, di una politica che è servizio, scegliendo uomini che abbiano a cuore solo il bene comune. Nessun interesse di parte può essere il criterio che ci porti a eleggere gli amministratori: non voto qualcuno per aver in cambio qualcosa, ma perché so che quella persona è capace, onesta intellettualmente e ha a cuore il bene di tutti. Questa è la sfida”.
Lei ha scritto una lettera al sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, per chiedere interventi risolutivi all’emergenza cimiteri: perché lo ha fatto?
“Per richiamare l’attenzione su un tema che tocca da vicino famiglie che vivono nel dolore e affrontano un momento difficile: la Chiesa, rifacendosi alle Sacre Scritture, ci ricorda l’importanza di una degna sepoltura. Mi sono fatto interprete del disagio vissuto da molti dei nostri concittadini e mi sono rivolto al sindaco perché siano trovate sollecitamente adeguate soluzioni che diano l’attesa risposta alla pietà e al rispetto dei corpi dei fedeli defunti”.
Lei è a Palermo da quasi cinque anni: possiamo tracciare un bilancio?
“I bilanci sono sempre difficili, ma posso dire che dopo quasi cinque anni penso di percepire meglio la città, di coglierne le potenzialità. C’è tanta gente di buona volontà, intellettualmente onesta, che forse ha bisogno di essere coinvolta attorno a progetti autentici di bene, di solidarietà. Tanta gente che lavora nel silenzio e che è pronta a mettersi in gioco in modo libero per il vero impegno civile. Palermo è una città con le sue contraddizioni, ci sono segnali inquietanti come l’attacco fatto alle scuole della città, penso ai cimiteri, alla mancanza di lavoro, a cosa significa che oggi la mafia resta per alcuni aspetti l’impresa che continua a offrire un ‘lavoro’ che viene dal traffico stupefacenti e dallo spaccio. Quando le istituzioni sono lontane e manca il lavoro la gente si dà da fare, per questo la mafia ha il sopravvento e può proporsi come anti Stato. La sfida è culturale, ci sono alcune situazioni di marginalità esistenziale che non riguardano solo alcune periferie, il Papa parla di periferie esistenziali che sono anche nel centro città. In cinque anni ho visto però una grande capacità di lavoro in rete tra le istituzioni e la visita del Papa è stata emblematica, organizzata in poco tempo grazie alla collaborazione con le istituzioni e il volontariato. Altro elemento da valorizzare è il rapporto tra le diverse chiese cristiane e il dialogo interreligioso. Questa è la Palermo nel cuore del Mediterraneo, quel Mediterraneo in cui si continua a morire: al di là della pandemia, resta l’emergenza migranti. Palermo custodisce questa grande sensibilità di convivenza, che si apre alla sfida dei problemi che sottostanno al fenomeno migratorio, persone che non invadono ma scappano da guerra e povertà generate in buona parte da noi occidentali che siamo predatori dell’Africa e dei Paesi del Terzo mondo. Non possiamo rimanere nell’ipocrisia, siamo occupanti di territori che sfruttiamo con le grandi multinazionali”.
Da quando è a Palermo ha dovuto affrontare il caso di don Minutella, di don Ricotta… si sente seguito dal suo clero?
“Sono stati cinque anni intensi, anche dal punto di vista delle relazioni con i miei confratelli nel sacerdozio, un tempo che ci ha consentito di conoscerci in profondità, non posso che trarne un bilancio positivo. Sono arrivato come un estraneo, mentre oggi sento tanto affetto e tanta solidarietà. Ci sono state anche delle difficoltà nel nostro clero, che hanno richiesto il mio discernimento e a volte anche delle scelte, ma ho sempre sentito una grande prossimità. La Chiesa di Palermo ha però bisogno di osare di più nella dimensione missionaria, di evangelizzare partendo dai bisogni della gente, dalla carne umana, dalla realtà concreta, c’è bisogno di un vangelo testimoniato da una relazione di comunione e di prossimità”.
Poco prima della pandemia, la Diocesi aveva annunciato delle linee pastorali per il prossimo triennio. Cosa è rimasto di quel progetto?
“Le linee pastorali parlavano di una Chiesa convocata, capace di osare la conversione missionaria delle nostre comunità. Il lockdown ci ha chiusi in casa, ma ci ha fatti anche osare: la gente si aspetta il vangelo con linguaggi e strumenti nuovi per raggiungere tutti. Dobbiamo essere più gioiosi e audaci”.
Le sue posizioni sui migranti e sulle responsabilità occidentali nello sfruttamento dell’Africa le hanno attirato alcune critiche, qualcuno la accusa di essere un vescovo “comunista”…
“Lasciamo stare le etichette, la Chiesa guarda a quelle realtà in cui ci sono uomini e donne che custodiscono una retta intenzione e si battono per la legalità, la giustizia e il bene comune, come ci ha insegnato il Concilio Vaticano II. Ci sono tanti segni di vangelo in tutti gli uomini di buona volontà, facciamo sì che le migliori energie si possano mettere insieme: essere dalla parte dei più deboli non è una posizione ideologica, è il cuore del vangelo. Coloro che condividono questi alti valori umani non possono che essere compagni di viaggio”.