È il giorno dell’audizione di Bruno Contrada davanti alla Commissione regionale antimafia che indaga sui depistaggi nelle indagini sulla strage di via D’Amelio. Il giorno in cui l’ex poliziotto, colui che viene indicato come l’uomo dei misteri, dice la sua ancora una volta sulle accuse da cui si è dovuto difendere in decenni processi che gli sono costati una condanna a 10 anni per mafia.
Dopo la strage di via D’Amelio cui fu un primo contatto fra la Procura e il Sisde, Bruno Contrada viene contattato dal funzionario dei Servizi segreti Sergio Costa. Chiede a Contrada di incontrare Giovanni Tinebra, capo della Procura di Caltanissetta. Perché entrarono in gioco i servizi segreti che non avevano compiti di polizia giudiziaria? Ecco uno dei nodi chiave.
La diretta
“Alla mia età non si può mentire”
“Fra tre mesi compirò novant’anni. Qualcosa può sfuggire alla mia memoria, non vorrei apparire reticente. Intanto viglio precisare che non sono un funzionario dei Servizi, uno 007, una spia come sostiene l’opinione pubblica. Sono stato un funzionario della polizia, negli ultimi dieci anni di carriera al Sisde, che significa servizi e informazione per la sicurezza democratica.
Credo che a novant’anni un uomo non possa più mentire, qualora lo abbia fatto, né per stesso né per altri. Mi impegno a dire la verità come ho sempre fatto”.
“Ero in barca quando esplose la bomba”
“Era domenica, un amico mi invitò a fare una gita in barca. Lui insisteva. Mi decido ad andare. Su quella imbarcazione eravamo cinque, sei persone. A ora di pranzo diventammo dieci. Mi chiamò Lorenzo Narracci, vice direttore del centro. Mi disse che era in motoscafo e sono in compagnia del capitano dei carabinieri Paolo Zanaroli e di tre amiche, studentesse di giurisprudenza. Gli dissi che anche io ero a mare, raggiungici per il pranzo. Pochi minuti dopo l’esplosione della strage, il mio amico Gianni ebbe una comunicazione dalla figlia. Disse al padre che c’era stata una bomba e man mano leggeva le didascalica sul televisore. Parlano di un attentato, ancora non si sapeva che fosse Borsellino. Ad un certo punto mi passò il telefono. La figlia ad un certo punto dice che si parla di Borsellino”.
“Fui chiamato per intervenire”
Il presidente dell’Antimafia Claudio Fava spiega a Contrada che uno degli uomini della scorta ha riferito che si presentò un uomo dei servizi in via D’Amelio. Contrada sa che fu mandato subito un uomo dei servizi subito sul posto?
“Non credo. Il primo intervento fu il mio. Da parte nostra non mandammo nessuno. Ritengo che la mattina successiva, il 20 luglio, ricevetti la telefonata del funzionario Costa. Sono quasi sicuro dell’orario. Era un commissario, il genero del capo della polizia Vincenzo Parisi. Mi dice che don Vincenzo, non disse il capo della polizia, desidera che prenda contatti con Tinebra per la strage che è accaduta. Appresi allora che il capo della Procura si chiamava Tinebra. A maggio, quando ci fu l’altra strage, il procuratore era un altro, salvatore Celeste. Mi disse che a Tinebra avevano dato un ufficio a Palermo, alla Procura generale. Io di mia spontanea volontà non avrei mai fatto una cosa simile, primo perché non sapevo che era Tinebra il procuratore e poi la questione non rientrava nell’ambito delle mie competenze. Mi accompagnò lo stesso Costa. La sera andai al Palazzo di giustizia ed ebbi l’incontro con Tinebra”.
“Eravamo soli io e Tinebra e mi disse…”
Eravamo soli, io e Tinebra, il quale mi disse che si trovava in grosse difficoltà perché, cerco di ricordare le sue parole, ‘io di mafia, soprattutto palermitana non so nulla, sono a zero’.Mi disse che si stava organizzando la Dia ma con persone che non erano competenti e il capo della polizia gli disse che io ero il più competente sulla mafia palermitana per il mio lungo servizio a Palermo, negli ultimi anni come dirigente della Squadra mobile. Tinebra mi disse se ero disposto a dargli una mano per l’indagine su questo fatto. Ero molto colpito per la morte atroce di questo magistrato, che stimavo moltissimo, e aveva anche un carattere gioviale, con cui avevo ottimi rapporti professionali. Non è vero, non ho mai detto che eravamo amici. Ed ero molto colpito perché erano morti gli agenti, erano come miei figli. Gli dissi signor procuratore sono a disponibile ma non posso svolgere indagini perché non sono più un ufficiale di polizia giudiziaria, ma dei servizi. I nostri compiti sono a livello informativo e non operativo. Gli dissi che non avevo competenza più in Sicilia, mi occupavo del coordinamento a Roma. Gli dissi che la mia attività informativa doveva essere coordinata dalla polizia giudiziaria”.
“Ne parlai con Arnaldo La Barbera”
“Dissi a Tinebra, non vorrei che il mio lavoro intralciasse l’attività della polizia giudiziaria. Ecco perché ebbi un confronto con il capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera e con il colonnello Subranni, comandante del Ros. Eravamo amici. Subranni mi disse che della strage a Palermo si occupava il maggiore Mauro Obinu. Io dissi al procuratore Tinebra, tra le varie obiezioni, che avrei dovuto avere il placet dei miei superiori e cioè il direttore dei servizi Alessandro Voci, il vice direttore Fausto Gianni e il capo del terzo Reparto, Franco Di Biase. Insistetti con il prefetto affinché, una volta ottenuto il beneplacito, Voci venisse a incontrare Tinebra. Gianni era un poco ostile, non era molto entusiasta di venire giù a Palermo. Aveva molta prevenzione nei confronti de siciliani”.
“Ho svolto solo attività informativa”
“Il 24 luglio annoto nella mia agenda ‘arrivo aeroporto prefetto Gianni, Sergio Costa’. Annoto ancora ‘Tinebra procura Caltanissetta, colloquio su indagini Falcone e Borsellino’. Io uso la parola indagini, è un termine inappropriato, ma difende dalla mia deformazione professionale. C’erano altri pm oltre a Tinebra, uno doveva essere il dottore Petralia, l’altro non ricordo. Non avevo nessun titolo, ho preteso che fosse una cosa del Servizio. Dissi al procuratore della Repubblica che potevamo svolgere attività informativa sui gruppi di mafia che sono ritenuti, non accertati, che possano avere una parte in queste azioni efferate ed espressi quella che era la mia opinione personale e cioè che quando veniva usato l’esplosivo c’erano di mezzo i Madonia. Poi informai La Barbera e Obinu e si costituisce un gruppo di lavoro”.
“La Barbera non era contento del mio intervento”
“Ero convinto che subito dopo i Madonia si doveva passare ai Galatolo, famiglie legate ai corleonesi di Totò Riina. Con La Barbera ho avuto un solo incontro, qualche giorno dopo il 24 luglio. Io capì che questo intervento, seppure particolare del Servizio, in un settore di sua esclusiva competenza non gli andasse troppo per il verso giusto”.
“Tinebra ci chiese notizie su Scarantino”
“Tinebra fece una richiesta scritta per avere una nota informativa sugli agganci, i rapporti, le relazioni di Vincenzo Scarantino, che non era ancora un pentito. Il direttore del centro, il colonnello Ruggeri, dice che non può farlo perché non è autorizzato e si rivolge al Servizio per sapere cosa fare. C’erano due cose da riferire, era parente di Profeta e poi c’era un labilissimo rapporto con i Madonia. Quando La Barbera dice che non abbiamo dato un contributo alle indagini dice la verità perché io non potevo fare indagini. Se non posso fare indagini che contributo posso dare?”.
“Com’è possibile che da Palermo nessuno avverte Caltanissetta che c’è un’indagine a suo carico?”, chiede Fava.
“L’inchiesta sul mio conto ha avuto un momento di evidenza il 7 dicembre del 1992, quando il Ministero mi fa rientrare nella polizia e cessa il mio distacco al servizio”.
“I fondi riservati del Sisde”
“Non ho mai sentito da nessuno che Arnaldo La Barbera ha dato un contributo al Sisde, so però che il Servizio destinava delle somme a chi era particolarmente impegnato con dei contributi, non so come definirle, delle prebende, degli aiuti economici. C’è tutta la storia dei fondi neri del Sisde, di cui si è parlato in un’inchiesta a Roma. Il Sisde ha dato un contributo di fondi riservarti all’allora prefetto di Palermo, Iovine”.
“Perché il Sisde deve dare un contributo al prefetto di Palermo che non fa attività di indagine? Che apporto poteva dare?”, chiede Fava
“Che apporto vuole che dia il prefetto. Mi sono convinto che la retribuzione di La Barbera non era per il suo contributo dato al Sisde. Io avevo nel mio ufficio una cassaforte con dei fondi riservati. Mi ricordo che venne Beppe Montana nel mio ufficio, era impegnato nella ricerca dei latitanti, e gli dissi ‘senti se hai bisogno di soldi da dare a un confidente’… ho aperto la cassaforte, c’erano tre milioni… sono convinto che il dottore La Barbera quando era capo della Squadra mobile aveva un contributo un aiuto economico mensile dal Sisde”.
Scarantino? Io mi sarei accorto che era un cialtrone”
“Se io avessi trattato Vincenzo Scarantino, nel senso di indagini sul suo conto, dopo 24 ore mi sarei accorto che era un cialtrone e raccontava cose non vere in virtù delle mie conoscenze sulle famiglie mafiose. Non ho mai avuto a che fare con Scarantino, mai visto fisicamente”.
“La Barbera? Sulla mafia ne sapeva meno di mia madre”
Perché non se n’è accorto La Barbera, poliziotto di comprovata esperienza, e ha creduto a Scarantino per anni?
“Non voglio apparire come quello che parla di persone che non possono più difendersi. Ci sono compiti di polizia giudiziaria che non possono essere affidati a persone che non hanno esperienza. Quando ho letto dopo in un libro o in un giornale i nomi dei 25 componenti del gruppo ‘Falcone e Borsellino’ mi sono detto ma che esperienza hanno? Mai sentito questi nomi. Come si fa così un’indagine su Capaci e Borsellino? La Barbera sarà stato un ottimo poliziotto, mai fatto servizio sempre al Nord, è venuto a Palermo che manco sapeva dove sta di casa la mafia, ne sapeva meno di mia madre che mi chiedeva ‘cosa è sta mafia?’. Secondo lei non me lo sono chiesto^ Me lo sono chiesto anche per Tinebra, c’era una impreparazione generale”.
Impreparazione o despistaggio?
Perché non se n’è accorto La Barbera, poliziotto di comprovata esperienza, e ha creduto a Scarantino per anni?
“Non voglio apparire come quello che parla di persone che non possono più difendersi. Ci sono compiti di polizia giudiziaria che non possono essere affidati a persone che non hanno esperienza. Quando ho letto dopo in un libro o in un giornale i nomi dei 25 componenti del gruppo ‘Falcone e Borsellino’ mi sono detto ma che esperienza hanno? Mai sentiti questi nomi. Come si fa così un’indagine su Capaci e Borsellino? La Barbera sarà stato un ottimo poliziotto, ma fatto servizio sempre al Nord, è venuto a Palermo che manco sapeva dove sta di casa la mafia, ne saèeva meno di mia madre che mi chiedeva ‘cosa è sta mafia?’.
Forse non è stata solo ingenuità, a Palermo c’erano professionalità importanti. Forse non si voleva fare un’indagine vera?
“Alcuni cercano di fare carriera attribuendosi meriti che non gli spettano,. Bisogna considerare anche questa componente, a meno che non si arrivi alla conclusione che ci sia stato uno scopo che porta a questo depistaggio”.