Quando nella sala conferenza dell’Associazione della Stampa Estera di Roma parte il nastro con la voce del prete accusato di molestie, la vittima scoppia in un pianto dirotto. Da quel momento Teodoro Pulvirenti, il ragazzo di Acireale che quella voce l’ha registrata, non smetterà più di parlare fra le lacrime. Ma non importa: sono le parole quelle che contano: “Questo amico di famiglia, don Carlo Chiarenza, si comportava come un padre per me”. È contenuta in questa frase, pronunciata da Teodoro, la prima menzione del nome del sacerdote accusato di pedofilia, una storia che “S” ha rivelato nel numero in edicola e alla quale il mensile dedicherà ampio spazio anche nel prossimo numero, in edicola da sabato ma già acquistabile in pdf da domani: si chiama don Carlo Chiarenza, è un monsignore e prima di essere rimosso dal vescovo di Acireale Antonino Raspanti officiava nella Basilica di San Sebastiano, proprio ad Acireale.
Teodoro, “Teo” come lo chiamano gli amici, non è un siciliano qualunque. La sua storia è straordinaria non solo per il caso di pedofilia che ha denunciato: Teo lavora al Memorial Sloa-Kettering Cancer Center di New York, si occupa di ricerca contro il cancro in una delle strutture più avanzate al mondo. Ma a 14 anni Teo era un ragazzo qualunque. “Nella sua stanza don Carlo mi infilò le mani sotto la maglietta”, esordisce prima di descrivere i suoi rapporti intimi con il sacerdote raccontati da “S”. Il resto è uno stato d’animo, l’impossibilità di rivelare il nome del sacerdote: “Avevo 14 anni e avevo fatto cose sporche col prete – dice – Nessuno mi avrebbe creduto. Avrebbero creduto a don Carlo, il grande ammaliatore”. Tanto più che la minaccia del prete, stando ai suoi racconti, era esplicita: “Una volta – ricorda – mi sono rifiutato. Lui mi ha detto: ‘Vai, dillo in giro. Vediamo chi ti crede’”.
Poi la liberazione. “Con me – spiega Teodoro – porto un dolore che non si può descrivere a parole, perché le vittime di abusi hanno una pietra sullo stomaco”. Una pietra fatta rotolare via prima con la confessione a un altro prete, poi parlando con uno psicologo, infine con gli amici, con i genitori e con l’associazione “La Caramella Buona onlus”, che ha raccolto la sua testimonianza. Infine, la pubblicazione su “S”: “Il 25 febbraio 2012 – prosegue Teodoro – è una data memorabile nella mia vita. La rivista ‘S’, coraggiosamente, ha raccontato la mia storia e io, per la prima volta, mi sono sentito libero”. Libero, tanto da poter dire adesso quelle due parole, “Carlo Chiarenza”, davanti a una folla di giornalisti. Un nome.
Cosa c’è in un nome? Per Teodoro in quel nome c’è la libertà, c’è però anche una selva di ricordi terribili. “Non avevo mai fatto sesso, non sapevo neanche cosa fosse un orgasmo”. Il sesso, la vergogna. Poi il tentativo di allontanarsi dal sacerdote, una ragazza. Che, ironia della sorte, si chiamava Carla. “Carla – racconta Teodoro – aveva questo profumo di fragole sulle labbra. Sembrava finalmente una cosa pulita”. La pulizia. Il riscatto. Quello che Teo chiede ai suoi compaesani: “Conosco almeno altre dieci persone, ragazzi e ragazze, che hanno la stessa situazione. Chiedo a tutti loro di parlare”.
Mentre parla, Teo stringe un rosario. “Io ero un chierichetto – ricorda – Ero molto religioso. Adesso credo in Dio, ma per ovvi motivi non nella Chiesa”. Quella Chiesa che, secondo il presidente de “La Caramella Buona”, Roberto Mirabile, l’ha deluso fino a qualche giorno fa: “Lunedì sera – racconta Mirabile – Teodoro ha ricevuto la telefonata di monsignor Raspanti. Ha detto che non sarebbe venuto qui a Roma, perché dice di avere altre priorità”. Ma la fede, quella non si perde: “Noi – prosegue Mirabile – non siamo contro la Chiesa. Io stesso sono cresciuto dai frati di Sant’Antonio. Ma la Chiesa non è cambiata, nonostante le parole del Santo Padre. A quella Chiesa, oggi, bisogna chiedere uno sforzo”. Fra le lacrime e con un rosario in mano. Come chi non smette di affidarsi a Dio.