Le bocche che avevano fame di verità sono state cucite col filo di ferro. La bella antimafia è diventata contraffazione di sé, ornamento di casta, il morso che segue l’appetito di soldi e poltrone. Ecco l’impostura che si rivela nella sua crudezza, ecco la finzione che ha preso il sopravvento sulla genuinità di una speranza.
Il cuore della reazione a Cosa nostra, deflagrata con le stragi – quel cuore pulsante di cortei, di striscioni, di sguardi limpidi di ragazzi – è stato divorato da successivi figuranti muniti di denti robustissimi. E venne l’antimafia che si organizzò in falangi, apparecchiando la tavola con i suoi interessi privati, con i suoi affari, sotto il marchio doc della legalità. Banconote al posto degli striscioni, tanto sempre di carta si tratta. Di mutazione in mutazione, si è giunti al paradosso dei paradossi, alla storia di Roberto Helg, presidente della Camera di Commercio di Palermo, vicepresidente della Gesap, beccato nelle vesti di estortore, sullo sfondo dell’aeroporto dedicato a Falcone e Borsellino. Il salmo legalitario cantilenato dalla stessa bocca che mastica una tangente. Avia raggiuni don Mariano Arena quando narrava del suo essere onestamente siciliano e onestamente mafioso: sotto il naso abbiamo appunto la bocca. Per mangiare più che per parlare. E per chi parla assai, c’è il filo di ferro.
Appena dietro, nel corteo dei suoi paradossi atroci e ordinari, imbullonata alle sue poltrone, segue l’antimafia che si è fatta potere, non necessariamente reato, per restare a galla. E che resiste, appiccicata ai suoi trucchi, nonostante il progressivo scolorirsi delle maschere che indossa, nonostante la svelata pervicacia con cui finge di rappresentare la speranza che non alimenta più.
Resiste la mascherata dell’antimafia declinata in politica, da Palazzo d’Orleans a scendere, con un presidente della Regione che, nel nome della sua presa della Bastiglia, sta spargendo sale sulle ferite di una terra piagata. Al detto di chi osa muovere appunti, segue l’immancabile contraddetto crocettiano: se io sono il rivoluzionario, tu che mi attacchi sei un colluso, un aficionado delle cosche, un cuffariano di riporto, un lombardiano di seconda generazione. Ed è talmente penetrante l’icona del giustiziere che perfino i malcapitati destinatari dell’anatema si frugano le tasche, per vedere se – chissà – sia rimasta impigliata nella stoffa la buccia ammuffita di un cannolo.
C’è l’antimafia dei paraventi e dei cognomi, che Lucia Borsellino non ha mai sfruttato per sé, ma di cui è rimasta prigioniera. Se Lucia si fosse chiamata in un altro modo, oggi sarebbe libera di ricevere le critiche che merita per la sua gestione della Sanità siciliana. Potrebbe finalmente rassegnare le dimissioni, o controbattere con la forza dei suoi argomenti al mormorio di addebiti che accerchiano l’assessorato. Invece ogni sussulto di dignità boccheggia, impastoiato nella palude della santificazione che immobilizza, nel paravento fornito alla nudità dei regnanti. Un cognome magnifico e onorato si è trasformato in gabbia del coraggio e del pensiero, mentre accorti venditori di fumo sfruttano il marketing del martirio, per interposta figlia.
C’è l’antimafia giornalistica, di firme che da anni svolazzano intorno allo stesso scoop – che non è mai stato tale – ottenendo contratti importanti, perché il cronista-eroe compone sempre un bel vendersi nella vetrina di un giornale.
C’è l’antimafia della commedia dell’arte trattativista, il canovaccio di un dibattimento che va essiccandosi nelle sue sedi deputate, nelle aule della giustizia, eppure viene mediaticamente gonfiato. Si trascrivono i sussurri, i sospiri, le occhiate, tralasciando le carte. Poi, quando un intellettuale, per giunta di sinistra, come il professore Fiandaca, si permette di azzerare a lume di diritto i presupposti giuridici del processo, cioè il processo stesso, si alza in coro la protesta dei sepolcri imbiancati. Come vi permettete di irrompere sul più bello, sulla scena degli illusionisti, con l’arroganza della verità?
C’è l’antimafia cannibale che divora se stessa. Dietro gli spettri delle vecchie bandiere si combatte al coltello per un posto al sole. Manifestarsi riconoscibili come antimafiosi chic – più antimafiosi dei vicini di legalità – significa acquisire visibilità, incarichi; governare un campo vastissimo di influenze e patrimoni. Sui vessilli ridotti a brandelli è proliferato un miscuglio associazionista di sigle e singolari personaggi che conservano la foto di Falcone e Borsellino nel portafoglio. E’ pericolosissimo criticarli questi manager della palingenesi. Se colpiti, sanno come muoversi. Sanno cosa fare. Antonello Montante, presidente di Confindustria sotto inchiesta, è l’emblema dell’antimafia che si auto-cannibalizza, che distribuisce patenti, che organizza il consenso intorno alla sua buona novella; per finire nel medesimo tritacarne, in un baluginare di lame, mezze verità e oscuri pentiti.
C’è, infine, l’antimafia di freschissima generazione che ricorre al consanguineo del boss. Sia detto con la massima considerazione per la buonafede di chi la sostiene e per la scelta di Giuseppe Cimarosa, nipote di Messina Denaro, che ha rinnegato lo zio e può rivendicare il valore della rottura con l’ascendente criminale della sua famiglia. Però, tutto quel trascinarsi da un teatrino all’altro, da un talk-show all’altro, da un entusiastico accorrere all’altro, espone anche lui all’ombra di un sospetto. Si avverte l’odorino dell’ennesima tavola apparecchiata. Si sente il fruscio della pagina che si riapre, per rinnovare il catalogo antimafioso.
Tutte queste antimafie – qui catalogate e sommariamente definite – appaiono diverse, perché battono strade differenti. Ma – tutte insieme – condividono le sfumature dell’unica finzione, dell’impostura del potere che ha preso il sopravvento sulla genuinità della speranza. Così, l’antimafia dei finti si specchia nel suo opposto: nella disillusione di chi ci aveva creduto ed è stato sconfitto. Così si riflette nell’antimafia dei vinti e delle bocche cucite.