I benefici al boss che non si pente: è una nuova giurisprudenza

I benefici al boss che non si pente: è una nuova giurisprudenza

Sulla scorta degli interventi di Cassazione e Consulta

CATANIA – Il percorso era stato tracciato dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale. Ma l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Catania, che ha concesso benefici per motivi di salute all’ex boss del clan Cappello Gianpiero Salvo – da qualche giorno libero, per effetto di una sospensione dell’esecuzione dell’ergastolo – è una delle primissime in Italia.

Non sono state diffuse statistiche, ma c’è chi ipotizza che possa trattarsi della prima in assoluto nel Paese. Sentenza epocale, perchè i giudici applicano quanto stabilito dalla Corte Costituzionale (sentenza 253 del 2009): sono incostituzionali le norme dell’ordinamento che vietano permessi premio ai mafiosi “in assenza di collaborazione con la giustizia”.

La dissociazione

Le picconate della Consulta avevano aperto in pratica a una revisione giurisprudenziale delle norme. Se ne discute da tempo. Una delle primissime volte, se non la prima, che essere mafiosi e non aver mai intrapreso un percorso per collaboratori di giustizia non venga ritenuto vincolante, “ostativo”, come si dice in questi casi, per ottenere dei benefici. Nel caso di Salvo, poi, vi è di più.

Lui non si è mai pentito, ma gli spettano ugualmente. Di fatto Salvo si è “dissociato” dalla mafia, ammettendo di aver sbagliato e dicendosi addirittura pronto a raccontare la sua storia ai ragazzi delle scuole. Lo ha scritto al presidente del Tribunale per i minorenni di Catania, Roberto Di Bella. E la sua storia è di sicuro impatto.

L’evoluzione normativa

La dissociazione era un istituto in voga ai tempi del terrorismo. E fu uno strumento utilizzato negli “anni di piombo” per sconfiggere, di fatto, il terrorismo. Da anni in Italia si fa un gran parlare dell’utilizzo di questo strumento applicandolo anche ai mafiosi.

Tutto però fu superato dalla legge sui pentiti, dalle intuizioni di Falcone e  Borsellino e dal successo delle primissime collaborazioni con la giustizia, fondamentali per le condanne del maxi-processo. Poi però il sistema ha cominciato a traballare.

La dissociazione dalla mafia di personaggi come Salvo, pur non parlando con i giudici, pur non accusando nessuno, potrebbe rivelarsi insomma in qualche modo importantissima, soprattutto per suscitare una reazione culturale. E per portare avanti, così, il progetto del presidente Di Bella, che mira ad allontanare i ragazzi dal rischio di diventare bassa manovalanza per i clan.

La sua storia

La storia di Salvo è una storia di mafia. È figlio di “Pippo u carruzzeri”: suo padre, in pratica, è sempre stato uno dei padroni del Villaggio Sant’Agata, capo di una pericolosa cosca appartenente al clan Cappello. E lui ha percorso le orme del padre, divenendo a sua volta un boss e partecipando a un’efferata spedizione di morte, nel 2008, in provincia di Enna.

Questa è storia. È per l’uccisione di Salvatore Prestifilippo Cirimbolo che Salvo ha preso l’ergastolo. Ma in carcere è cambiato. Ha intrapreso un percorso di “rivisitazione critica del suo passato”, per citare le parole del Tribunale di Sorveglianza, presieduto da Nunzio Corsaro.

I principi

L’ordinanza, come detto, applica i principi enunciati dalla Cassazione. Sostenere che sia pericoloso solo perché non ha risarcito i danni alle vittime, cosa che per i giudici non potrebbe neanche permettersi, o perché non si è pentito, non basta.

I giudici, per sostenere che fosse socialmente pericoloso, avrebbero dovuto usare altri argomenti, che ad oggi non sussistono. È quanto ha fortemente sostenuto il suo avvocato, il penalista Giorgio Antoci, che ha portato la battaglia fino a Roma.

E la quinta sezione penale della Suprema Corte si è espressa dieci mesi fa, lo scorso gennaio, dandogli ragione e bocciando il no alla concessione dei benefici e rinviando per un nuovo esame al Tribunale di Sorveglianza di Catania. Adesso il pronunciamento.


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