Borsellino, i pataccari e i non so| È il giorno della vergogna - Live Sicilia

Borsellino, i pataccari e i non so| È il giorno della vergogna

La strage di via D'Amelio

Al processo sulla strage di via D'Amelio magistrati e investigatori a confronto con i falsi pentiti.

CALTANISSETTA
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6 min di lettura

PALERMO – Per qualcuno è il giorno della verità. Per altri è quello della vergogna. Al processo Borsellino quater, in corso a Caltanissetta, magistrati e investigatori vengono messi a confronto con i pentiti fasulli.

La storia ci dice che sulle loro bugie sono stati costruiti processi su processi. E che quelle stesse bugie hanno retto incredibilmente in tutti i gradi di giudizio fino alla condanna di innocenti. Adesso la questione è un’altra. Bisogna capire se Vincenzo Scarantino e Francesco Andriotta non erano solo collaboratori di giustizia fasulli, ma anche pupi vestiti per il più grande e vergognoso depistaggio nella storia repubblicana.

Oggi e domani va in scena la sconfitta dello Stato. Perché lo Stato ha già perso. Non ce ne vogliano i magistrati di Caltanissetta che con coraggio hanno riscritto la storia e smascherato gli impostori. Ventiquattro anni per giungere a una verità parziale sulla strage del giudice Borsellino e degli agenti di scorta basterebbero da soli per parlare di sconfitta. Purtroppo, però, non è tutto. Pubblici ministeri, investigatori e giudici hanno creduto alle patacche dei pentiti. Eppure per qualcuno, soprattutto fra gli avvocati, la truffa era fin troppo maleodorante per non essere percepita. Persino due pentiti dall’attendibilità certificata come Salvatore Cancemi e Giovan Battista Ferrante avevano smascherato Scarantino. Niente, si è andati dritti fino alle condanne. Fino al punto di dovere chiedere scusa a gente sbattuta ingiustamente in galera per decenni.

C’è voluto un altro pentito, Gaspare Spatuzza, di Brancaccio, per mettere Scarantino, il picciotto della Guadagna, con le spalle al muro. Lo ha costretto ad ammettere di avere giocato una partita truccata. Il dramma è che non è stata una partita né breve, né per pochi intimi. Le parole di Scarantino sono state considerate, e in più occasioni, oro colato in una lunghissima stagione di processi. La sua credibilità è arrivata fino in Cassazione, nonostante le continue ritrattazioni e il clima di sfiducia che c’era attorno a lui. A ricostruirlo in aula è stato il procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, applicata a Caltanissetta fra il ’92 e il ’94 per indagare sulle stragi. Che il pentimento di Scarantino fosse un bluff la Boccassini lo aveva pure scritto: “Con il collega Roberto Sajeva mettemmo nero su bianco le nostre perplessità, scrivemmo che si stava imboccando una pista pericolosa, lo dicemmo al procuratore Tinebra, ai colleghi Anna Palma e Nino Di Matteo, lo segnalammo in una nota inviata anche alla Procura di Palermo”. La storia, in gran parte, le ha dato ragione. “Nei primi interrogatori abbiamo ritenuto che le dichiarazioni di Scarantino fossero genuine. Solo dopo abbiamo intuito che fossero inquinate”, disse Di Matteo, citato come testimone.

Per la strage Borsellino dove morirono, oltre al giudice, gli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina siamo giunti al processo quater. Il magistrato Anna Palma, oggi procuratore generale a Palermo, e pm della prima inchiesta a Caltanissetta, e tre ex poliziotti della “Squadra Falcone e Borsellino” – Mario Bo, Vincenzo Ricciardi e Giuseppe Di Gangi (i primi due già indagati e archiviati per i depistaggi nelle indagini, ndr) – si troveranno faccia a faccia con Scarantino, la moglie Rosalia Basile e Andriotta.

I falsi pentiti furono imbeccati da qualcuno? Furono davvero minacciati affinché raccontassero una verità non vera? I confronti servono a rispondere agli interrogativi ancora aperti dopo 24 anni. Sono tre i passaggi da scandagliare: i colloqui investigativi di Scarantino nel carcere di Pianosa, i sopralluoghi a Palermo e il soggiorno del pentito a San Bartolomeo al Mare in Liguria.

I colloqui a Pianosa
Scarantino ha riferito che i suoi interrogatori erano scanditi da alcune pause per imbeccarlo. Il pentito si alzava e usciva dalla saletta del carcere. Gli investigatori hanno sempre smentito, ma in una precedente udienza l’ex dirigente della Squadra mobile di Imperia, Salvatore Coltraro, ha raccontato di avere assistito a quelle insolite pause.

La moglie di Scarantino
Nel lontano 1995 l’allora moglie di Scarantino, Rosalia Basile, riferì che il pubblico ministero Anna Palma quel giorno le avrebbe detto di avvalersi della facoltà di non rispondere oppure avrebbero mandato un certificato medico falso. Secondo la donna, bisognava evitare di mandare in crisi la credibilità del marito con qualche sbavatura o contraddizione. “Ma come vi viene in mente, non l’avrei fatto neppure se fosse un mio teste”, ha risposto duramente l’anno scorso la Palma.

La lite in Liguria
Il 26 luglio del ’95 Scarantino ritrattò le sue dichiarazioni in un’intervista a Studio Aperto, il tg di Italia Uno. Nel corso della sua deposizione Bo ha riferito che era andato a casa del pentito su richiesta del pubblico ministero Carmelo Petralia per accompagnarlo ad un interrogatorio. Coltraro, però, ha detto che il compito di scortare Scarantino era stato affidato alla Questura locale. Allora perché Bo si trovava nell’appartamento? Secondo Scarantino, Bo lo avrebbe aggredito per quella ritrattazione televisiva. Addirittura, ha raccontato la moglie, il poliziotto lo avrebbe picchiato mentre il collega Di Gangi lo teneva fermo. Gli infilarono una pistola dentro la bocca. Balle su balle, si è difeso Bo, la cui versione fa a pugni con quella di Scarantino. Fu lui ad essere aggredito dal pentito che ebbe uno scatto di gelosia dopo averlo visto parlare con la moglie.

Si comincia oggi con i confronti Palma-Basile, Scarantino-Bo e Scarantino Di Gangi. Domani sarà la volta di quelli fra Scarantino e Ricciardi, Andriotta e Bo, Andriotta e Ricciardi. C’è un rischio che bisogna evitare, quello di farsi condizionare dalla pessima e meritata reputazione di Scarantino e Andriotta. Che credibilità possono avere due pentiti sbugiardati? La risposta è nella decisione della Corte d’assise, presieduta da Antonio Balsamo, di organizzare i confronti perché ritenuti “assolutamente necessari”. Come dargli torto alla luce dei troppi non ricordo dei testimoni istituzionali ascoltati dai pm Gabrieel Paci e Stefano Luciani. Così come sono tanti i passaggi investigativi che, in quegli anni, non sono confluiti in un verbale o in una nota informativa. Due decenni dopo in molti hanno ammesso di avere avuto dubbi sulla credibilità di Scarantino. Bo ha detto di averli condivisi con tutto il gruppo investigativo allora coordinato dal capo della Mobile Arnaldo La Barbera. La Barbera non può smentirlo né appoggiarlo: oggi è deceduto. Ricciardi ha sostenuto di avere espresso le sue perplessità alla stessa Boccassini senza ricevere alcuna risposta. Fatto sta che niente e nessuno ha deviato le indagini dalla strada tracciata e poi rivelatasi sbagliata.

Diverso è il caso della moglie di Scarantino che oggi può addirittura vantare un titolo di credito. Quando smentiva il marito di lei si disse che lo faceva per favorire chissà quali interessi occulti. Ed invece aveva ragione. Bisogna pure chiedersi in quale condizione psicologica si presentano oggi i due penti in aula al cospetto di poliziotti e magistrati. Andriotta è in carcere. Scarantino pare che viva da barbone chissà dove. Nel processo sono imputati per le calunnie che altri hanno creduto essere delle verità. Salvo Madonia e Vittorio Tutino rispondono di strage.

I poliziotti, dal canto loro, arrivano ai confronti “forti” dell’archiviazione dello scorso gennaio. Il giudice scrisse che i due pentiti, “sfuggenti e ambigui”, si erano inventati la storia delle violenze e delle pressioni subite perché “avrebbero avuto interesse nell’individuazione di fonti esterne a cui imputare la verità processuale”. Insomma, se depistaggio c’è stato fu causato da “non meglio identificate posizioni di potere per finalità da individuare”.


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