Caro don Lorenzo,
Sono appena tornato dal turno in fabbrica sfinito come al solito, anzi forse di più. In fabbrica abbiamo votato sul nuovo accordo col padrone e mentre votavo pensavo a quella frase di Simone Weil che ogni tanto ci ripetevi: “L’umanità si divide in due categorie: le persone che contano qualcosa e le persone che non contano nulla”. Oggi ne ho avuto la conferma, rientro nella seconda categoria! Questa sera sono così giù che mi sarebbe piaciuto salire a Barbiana come un tempo, per sedermi con te, parlarti e ascoltare le tue parole e quella dannata tosse che ti sconquassava il petto e invece mi ritrovo nella mia squallida casetta in affitto, silenziosa perché moglie e figli dormono, sul tavolo della cucina a scriverti questa lettera senza neanche sapere l’indirizzo del Paradiso. Sì, il Paradiso perché sono sicuro che sei lì, anche se vorrei averti quaggiù perché ormai è pieno di gente che parla di te: preti, politici, intellettuali ed anche attori. Ma loro non ti conoscono oppure – come è successo anche con il Vangelo – si sono informati sul tuo conto solo per quanto gli torna comodo.
Don Lorenzo mio, sono triste questa sera proprio come quando venivo da te dopo che la professoressa della tua famosa lettera ci bocciava e ci diceva che eravamo “capre”, ma oggi non è la professoressa fiorentina che mi boccia, è la vita stessa! Che vita di merda, don Lorenzo… mi rompo il culo (lo so che non ti arrabbi per le parolacce) per pochi maledetti euro che se ne vanno subito tra affitto, mangiare e tasse e non posso neanche cercare di cambiare le cose, come dicevi tu, col voto e con lo sciopero perché hanno reso inutili pure quelli. Qui nella mia cucina ci sono i fantasmi dei miei figli e di mia moglie che mi guardano chiedendomi del futuro, e poi ci sono i fantasmi dei miei compagni di lavoro che mi chiedono come ho votato: c’è Luigi della Fiom che mi guarda con gli occhi pieni di rabbia e mi dice che mi ammazza se ho votato “sì”, ma c’è anche Paolo che con occhi bassi mi ricorda di pensare alle nostre famiglie e che non abbiamo l’età per trovare un nuovo lavoro. Eppure nonostante i miei fantasmi mi sento tremendamente solo, e tu questa solitudine me l’avevi profetizzata quando neanche avevo la barba: “I comunisti ti hanno ingannato, gli industriali ti hanno calpestato e noi preti non abbiamo saputo fare”. Eri sempre sincero coi tuoi ragazzi, non ci risparmiavi nulla della cattiveria della vita, poi però se capivi che stavamo per piangere ci abbracciavi e ci promettevi che quando saremmo stati più grandi e tu più buono avremmo cambiato questo mondo ingiusto insieme.
Ora tu sei lassù e io quaggiù. Quanti operai ci sono in Paradiso? Che domanda bischera che ti faccio Priore, a catechismo e a scuola lo ripetevi sempre: “Beati i poveri perché il Regno dei cieli è loro”. Lo so che l’ha detto Gesù, ma quando lo dicevi tu uno sentiva che era vero e guardava le cose in modo diverso. Questa sera però qualche dubbio ce l’ho… Priore, scusami se non riesco a finire la lettera e mi addormento sul foglio come facevo quando studiavo nella scuola di Barbiana, però questa volta so che non mi darai uno scappellotto per farmi continuare a studiare ma mi stringerai teneramente a te, come quel papà che mi è mancato, e mi sussurrerai ancora una volta quelle parole che mi dicesti quando fui licenziato per la prima volta: “Perdonaci tutti, comunisti, industriali e preti. Dimenticaci, disprezzaci, fai quel che vuoi, ma il tuo Signore non lo lasciare, Franco. Abbi il coraggio di prendere la Sua croce, portala con fiducia. Non hai che Lui che t’abbia amato”.