“Con Falcone e Borsellino vivi la storia della Sicilia sarebbe stata diversa, ma per le loro morti forse bisogna guardare anche all’estero”. Ecco come la pensa Francesco La Licata, decano del giornalismo siciliano, inviato de “La Stampa”, ed esperto di storia della mafia che da 40 anni segue e racconta i fatti di Cosa nostra e gli intrighi di potere che ancora rendono opache le vicende di Sicilia Nel suo ultimo libro, “Don Vito”, ha raccolto le testimonianze di Massimo Ciancimino, “perché proprio da lui potrebbe venire un contributo decisivo per fare definitivamente chiarezza anche sulle stragi.”
La Licata, oggi si commemora il diciottesimo anniversario dell’eccidio di Capaci. Cosa ha rappresentato per la Sicilia l’attentato del 23 maggio 1992?
“Ha rappresentato un danno enorme per la Sicilia e per il Paese intero. Falcone e, poi, Borsellino erano due magistrati non solo bravi, ma anche capaci di pensare in grande e di trovare soluzioni per ogni ostacolo o problema. Quando avvenne la strage di Capaci, non ci volevo credere, speravo che Falcone fosse riuscito a salvarsi, così come si era salvato all’Addaura. Se Falcone fosse riuscito a sopravvivere oggi, grazie alla sua capacità di strategia e di analisi, si parlerebbe meno di Cosa nostra”.
Gli ultimi sviluppi delle indagini sulle stragi hanno fatto venire meno certezze che parevano ormai acquisite: non c’era solo Cosa nostra a Capaci…..
“Si, io partirei da via D’Amelio, però. Gli sviluppi degli ultimi due anni hanno rivelato per certo che il processo per l’uccisione di Borsellino va rifatto. Il contributo di Spatuzza, ritenuto affidabile dagli inquirenti, ha, infatti, cambiato le carte in tavola: ci sono persone innocenti in carcere, e colpevoli ancora liberi. Per Capaci le cose sono meno chiare, e il contributo di Spatuzza in questo caso è meno significativo perché non partecipò direttamente all’attentato. Quello che è certo è, però, che le ultime novità sull’Addaura hanno delineato la presenza nelle stragi di componenti istituzionali. E questo è uno scenario inquietante”.
E’ ormai convinzione diffusa che apparati deviati dello Stato abbiano contribuito a organizzare, o almeno non abbiano ostacolato, le stragi del ’92. Ma chi sono questi servitori infedeli?
“Per capire questo occorre ripartire da quello che ha detto Massimo Ciancimino. La sua descrizione di questo signor Franco o Carlo va delineando la figura di un agente che lavora in Italia, ma che risponde ad autorità straniere. Nel telefono che Ciancimino ha consegnato ai magistrati vi erano, infatti, due numeri, e tra questi anche un numero fisso che corrispondeva a quello di un ufficio dell’ambasciata americana. Si pensa, dunque, a collegamenti con la Cia o con l’Fbi. Guardando in altra direzione, si pensa anche a possibili sponde con i servizi di sicurezza del Vaticano. Sarà comunque molto difficile strappare una rogatoria internazionale per permettere ai magistrati di dare un volto e un nome a questi personaggi”.
A proposito di Ciancimino, nel suo libro ha raccolto tutti i ricordi e le testimonianze del figlio del defunto ex sindaco mafioso di Palermo. Che idea si è fatto?
“Le sue deposizioni hanno già fornito un contributo concreto. Ci sono alcuni dati di fatto che ormai hanno assunto una certa chiarezza, a partire dalla trattiva tra mafia e Stato, portata avanti da alcuni uomini del Ros dei carabinieri. Ne aveva già parlato Brusca, ma adesso si sono registrati elementi aggiuntivi per quanto riguarda la mancata perquisizione del covo di Riina, e la mancata cattura di Provenzano. Vi è, poi, un elemento nuovo: il coinvolgimento dei servizi segreti e quello anche di entità straniere”.
Le indagini intanto proseguono, ma i pm di Palermo si dicono preoccupati per le ripercussioni che la legge sulle intercettazioni potrebbe avere anche sulle inchieste di mafia. Qual è la sua riflessione in tal senso?
“Non c’è neppure bisogno di riflettere. Questa è una legge assurda, impensabile per un paese avanzato come il nostro. Limitando le intercettazioni, anche per reati non propriamente mafiosi, si danneggia le inchieste sulla mafia. Sono molto preoccupato, inoltre, perché il governo così facendo pone a rischio non solo il diritto di informare dei giornalisti ma anche l’esercizio delle libertà fondamentali del cittadino. E questo penalizza la democrazia”.