PALERMO – Le accuse reggono per Giuseppe Acanto, ma cadono per le persone con le quali era entrato in società. Il risultato è la confisca del patrimonio del ragioniere di Villabate “in affari con la mafia” e la restituzione dei beni agli altri proposti per la misura di prevenzione.
Il collegio composto dal presidente Raffaele Malizia e dai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini applica ad Acanto la sorveglianza speciale con l’obbligo di soggiorno per quattro anni.
Tra le aziende totalmente dissequestrata ci sono quelle del “Gruppo Crocco (amministrato da Elisa Di Girolamo, difesa dall’avvocato Enrico Sorgi) che include Motorgas, Blu Gas, Elgas, Sogeas, Gigas, Gas Service, Lamdagas e quote della Motor Oil. Ciò significa che sono stati dissequestrati anche i distributori di carburanti di via Messina Marine 196, via Lanza di Scalea 686, via Matteotti 9, strada statale 113 Partinico Campo Sottano, via Nuova Circonvallazione Caltanissetta, stradale Primo Sole Catania, via Fragale a Torrenova, località Petazzi a Castellammare del Golfo. Nessun illecito nei rapporti d’affari avuti con Acanto. Non regge l’ipotesi che tanta gente gli avrebbe fatto da prestanome.
Prima braccato da Cosa nostra, poi in affari con la mafia che avrebbe capito che le capacità di Giuseppe Acanto andavano sfruttate anche a costo di perdonargli la grave colpa di avere raggirato alcuni uomini d’onore. Acanto, infatti, era socio di Giovanni Sucato che negli anni Novanta si guadagnò l’appellativo di “mago dei soldi”. Prometteva di raddoppiare in breve tempo i capitali che gli venivano consegnati. All’iniziò fu davvero così, dalle sue mani transitarono 10 miliardi di lire, poi la truffa venne a galla. E c’erano cascati anche personaggi che contavano.
Sucato morì nel 1996. Lo trovarono carbonizzato all’interno della sua auto, sulla superstrada Agrigento-Palermo, nei pressi del bivio di Bolognetta. Le circostanze della morte sono ancora oggi misteriose. Di certo, però, Sucato non ebbe alcun incidente con la sua macchina, trovata accostata al guard rail.
L’indagine patrimoniale della Direzione investigativa antimafia iniziò nel 2014 dall’analisi della contabilità di alcune aziende del mercato ortofrutticolo di Palermo. Si scoprì che nel suo studio a Villabate Acanto conservava le scritture contabili anche di una sfilza di imprese riconducibili, sostiene l’accusa, a mafiosi del calibro di Nino Mandalà, Giovanni D’Agati, Alessio Fontana, Nicolò Cirrito e Riccardo Fontana.
Di Acanto aveva parlato anche Francesco Campanella, pentito del clan di Villabate, vicino agli uomini che avevano garantito protezione e cure al latitante Bernardo Provenzano. “Acanto era il loro commercialista – raccontava Campanella – è uno dei raccoglitori di Sucato, successe un inferno a Villabate… diversi appartenenti a Cosa nostra avevano perduto ingenti somme di denaro. Addirittura alcuni collaboratori di Sucato erano stati uccisi o avevano subito degli attentati intimidatori, come lo stesso Acanto al quale era stato incendiato lo studio professionale”.
A quel punto il ragioniere decise di cambiare aria. Campanella aveva saputo che Acanto era fuggito dal paese perché condannato a morte da Cosa nostra e che aveva portato con sé una parte dei soldi di Sucato. Per organizzare il suo rientro aveva chiesto l’aiuto di Simone Castello, “personaggio molto legato alla famiglia di Villabate”, il quale aveva ottenuto da Mandalà l’autorizzazione a farlo rientrare, “a condizione che si mettesse a disposizione totale della famiglia mafiosa e di Mandalà in particolare, cosa che egli accettò di buon grado”. Da qui, dicono gli investigatori della Dia, sarebbe iniziato quel vorticoso giro di affari gestito da Acanto per conto dei boss e che ha portato prima al sequestro e poi alla confisca disposta dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo.