Culle vuote, si pensa all'assegno| Ma va pure fermato l'esodo dal Sud - Live Sicilia

Culle vuote, si pensa all’assegno| Ma va pure fermato l’esodo dal Sud

L'emigrazione accentua lo svuotamento della Sicilia e di tutto il Mezzogiorno.

Denatalità
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Un po’ all’improvviso, nell’agenda politica irrompe finalmente il tema delle denatalità. E cioè di come in un’Italia sempre più vecchia nascano sempre meno figli. Un fenomeno che ha assunto proporzioni allarmanti negli ultimi anni e che ha profili apocalittici soprattutto al Mezzogiorno. In Sicilia e nelle altre regioni del Sud, il calo delle nascite non è parzialmente compensato come altrove dall’immigrazione, che nel meridione ha numeri bassi, anzi, al contrario vede un aggravio della situazione dovuta alla ripresa dell’emigrazione che ha assunto negli ultimi quindici anni dimensioni cospicue e che peraltro colpisce soprattutto la popolazione giovane, cioè i potenziali genitori.

I propositi del governo di introdurre un assegno per le famiglie con figli sono senz’altro buoni e c’è da augurarsi che si tramutino in fatti. Si tratta di un intervento che però necessita di essere inserito in una più ampia strategia che miri ad affrontare quello che oggi, soprattutto al Sud, sta diventando uno dei più seri problemi del Paese. La Sicilia quest’anno è scesa di poco sotto la soglia dei cinque milioni di abitanti. Le proiezioni sui dati Istat per il 2050 prevedono un crollo di un milione di abitanti, che la porterà a quattro milioni scarsi. Dati non dissimili rispetto alle altre regioni del Sud, che invecchia e si svuota di giovani.

Il declino demografico dell’Italia è una realtà. L’Italia è ultima in Europa per nascite ogni mille donne, ultima per l’età delle puerpere al primo parto (trentuno anni e due mesi). Nel 1965 in Italia nascevano ogni anno più del doppio dei bambini che nascono adesso. Ed essere genitori è più complicato in alcune zone d’Italia. Uno studio del 2019 di Save the Children concentrato sulle madri evidenzia la notevole diseguaglianza tra territori che hanno attivato politiche di sostegno, in particolare al lavoro femminile e ai servizi (prevalentemente al nord), e territori invece ancora troppo carenti da questo punto di vista (soprattutto al sud). Le Province autonome di Bolzano e Trento conservano negli anni i primi posti della classifica, seguite da Lombardia, Valle D’Aosta, Emilia Romagna e Friuli-Venezia Giulia. Chi è ultima in classifica? La Calabria, subito dopo la Sicilia. L’Isola va bene solo nella classifica relativa alla voce “cura”, un tasso che tiene conto dell’indice di fecondità e della distribuzione del lavoro di cura della prole all’interno di coppie con entrambi i genitori occupati, mentre è ultimissima tra le regioni italiane nella classifica relativa ai servizi per l’infanzia e in quella per il lavoro femminile. Perché la legenda per cui le donne lavorando fanno meno figli è, appunto, una leggenda.

I dati su asili nido e lavoro femminile però da soli non bastano a spiegare il calo della natalità. Il primo fattore decisivo per comprendere il fatto che in Italia nascono meno bambini è infatti la riduzione delle potenziali madri. Sì, in effetti, se si studiano più approfonditamente i numeri si scoprirà che, sorpresa, non è sempre vero che dove ci sono più asili nido o dove le donne lavorano di più o dove il reddito è più alto si fanno più figli. E viceversa. Scriveva pochi giorni fa Federico Fubini sul Corriere della sera: “In 57 provincie l’offerta di posti nei nidi è superiore alla (scarsa) media nazionale di 24 posti ogni cento bambini; eppure fra queste province virtuose, ben trentacinque nell’ultimo decennio hanno visto un crollo delle nascite persino più drammatico della già terribile media nazionale di meno 21%”. In sintesi, si leggeva in quell’articolo, una delle grandi cause della denatalità “è semplicemente che in Italia ci sono sempre meno donne in grado di procreare: quasi un milione in meno rispetto al 2008”. Del resto, già due ani fa l’Istat spiegava che “l’effetto della modificazione della struttura per età della popolazione femminile è responsabile per quasi i tre quarti della differenza di nascite osservata tra il 2008 e il 2016. La restante quota dipende invece dalla diminuzione della propensione ad avere figli”. Si toccano ora gli effetti del cosiddetto “baby-bust”, ovvero la fase di forte calo della fecondità del ventennio 1976-1995, che ha portato al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995.

Insomma, è cambiata la struttura demografica del Paese e ci sono meno potenziali genitori. Gli studiosi parlano di “trappola demografica”. Questo ovviamente non significa che misure a sostegno della genitorialità non siano auspicabili, anzi. Bolzano, per esempio, sempre in testa alle classifiche nazionali, ha un tasso di natalità più alto della media nazionale. E gli esempi di alcuni Paesi europei che hanno investito in politiche a sostegno della genitorialità universalistiche (come quelle di cui discute adesso in Italia) come Francia e Svezia sono incoraggianti. Ma quel dato sulla “carenza di genitori” induce a temere che queste misure non siano in sé sufficienti. Soprattutto al Sud.

Per contrastare il fenomeno, infatti, serve che ogni donna in età fertile faccia più figli ma anche che aumentino, con l’immigrazione, le donne in età fertile. Ed è evidente che il discorso vale al contrario, in particolare per il Mezzogiorno. Se non si arresta il flusso migratorio che sta svuotando il Sud soprattutto di giovani, i potenziali genitori continueranno a diminuire. Gli emigrati dal Sud tra il 2002 e il 2017 sono stati oltre due milioni, di cui 132.187 nel solo 2017. Di questi ultimi, si legge, “66.557 sono giovani (50,4%, di cui il 33% laureati)”. Non perdiamo solo quelli, in Sicilia e nel resto del Sud, ma anche i loro figli che verranno. Ed ecco che anche il problema delle culle vuote si intreccia con la prima, grande e dimenticata emergenza nazionale che è quella meridionale. L’emergenza di un’area del Paese che si svuota, invecchia e perde futuro, figli e speranza.

 

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