E’ come la maledizione di un gioco dell’oca che riporta la fame al punto di partenza, nella casella della povertà. Presidente che eleggi, Sicilia che resta sempre uguale, o, almeno, è così che si racconta.
Il non lusinghiero risultato di Nello Musumeci, nell’ultimo sondaggio, è stato commentato dal governatore con i modi signorili di una amarezza felpata: “Sono il presidente della regione col minor gradimento di Italia, ma io sono un presidente fuori moda, ma siccome voglio guardare in faccia le persone ed essere a posto con la mia coscienza non cambio, sono convinto che tra un paio d’anni quello che stiamo seminando emergerà, questa stagione dell’odio, dove l’avversario è un nemico, non è la mia cultura e neanche quella di alcuni rappresentanti della sinistra che si sono formati nelle stesse palestre e ambienti”.
C’è un sentimento di moderazione che si apprezza, nell’invito a una cultura comune che riconosca le differenze, senza inasprirle in faide. Ma, nelle parole presidenziali, si coglie un riflesso di mestizia. Come se, sotto traccia, l’uomo al timone pro tempore accettasse già la verità che tutti hanno dovuto ammettere, fissando per buona educazione un traguardo da qui a due anni: ci sto provando, però, date le condizioni che sappiamo, più di così non si può. Cosa significa ‘fuori moda’ se non impossibilitato a mutare un destino, pur con tutte le attenuanti?
Di ben altro cromatismo erano le reazioni di Rosario Crocetta, nella sua stagione a Palazzo d’Orleans. Saro prediligeva le dichiarazioni fiammeggianti che si opponevano agli oppositori. Tuttavia, il panorama somigliava a quello attuale: un monarca democraticamente eletto, assediato nella sua dimora, in un regime di stenti e di polemiche inutili, sventolate da una classe politica senza visione. Un sovrano dimezzato alle prese con una finzione continua di presa della Bastiglia che mai si verifica perché, in Sicilia, pure i critici sono di cartapesta quando fanno parte della casta.
Così, secondo canovaccio, Nello appare prigioniero del suo ruolo, del suo palazzo, della miseria che non si risolve, dell’immobilità che non riesce a muovere un passo. Lui, come i suoi predecessori, ostaggio di una terra ingovernabile, che non vuole essere cambiata, che si avvicina al giorno della catastrofe, quando non ci sarà più niente per nessuno. E sarà un tragico risveglio.
Anche perché soffia fortissima l’arroganza di un Nord ricco che reclama più autonomia, più indipendenza, più capacità di incassare e spendere il suo, secondo lo spirito egoista del tempo.
C’è un esercito che guarda ai suoi generali e ai suoi capitani, per tornare alle origini, spezzando il legame della solidarietà nazionale. E ci sono i numeri, le intenzioni e il contesto per spezzarlo davvero.
Non è difficile, per quanto risulti atroce, immaginare un incubo venturo, con la gente del Sud protagonista di una nuova, socialmente ancora più cruenta, migrazione di massa, pur di sfuggire a una piccola patria non governata, soffocata, in cerca di pane e lavoro. I prossimi disperati in viaggio saremo forse noi, i porti resteranno chiusi per noi. E qualcuno magari dirà: cari terroni, la pacchia è finita.