Dal cancro si può guarire | "Ora sconfiggiamo il silenzio" - Live Sicilia

Dal cancro si può guarire | “Ora sconfiggiamo il silenzio”

Fermo immagine di Nadia Toffa tratto dal programma 'Le Iene'

Le parole di Nadia Toffa. Il coraggio di Daria Bignardi. Si raccontano storie nuove sul tumore. E in Sicilia?

Da questa parte c’è una serenità precaria di riti e momenti. Parole srotolate come preghiere. Saluti e baci che hanno la pretesa dell’immortalità. Poi, il muro. Dall’altra parte, parrucche da chemioterapia, stanze contraddistinte da un numero che non sarà più dimenticato, fessure di sorrisi, infusioni di coraggio, carne che duole, spirito che, indomito, ricuce.

Scorre sempre una muraglia tra i presunti sani, da questo lato della strada e i malati di tumore che combattono nel campo delle insicurezze di tutti. C’è sempre una parete, che la paura rende impenetrabile, costruendo chilometri di omertà. Non si parla di cancro. Quasi mai. I sani, veri o presunti, non affrontano l’argomento perché credono di contaminarsi con una profezia del dolore. I valorosi, che lottano si sentono, perciò, condannati al silenzio.

Ma, talvolta, c’è chi deflagra come una benedizione nell’ombra. E grida che pure un male che atterrisce è vita che va amata, abbracciata, condivisa, raccontata, sottratta al buio ed esposta alla luce. Non è una circostanza fortuita che a farlo siano le donne, che camminano un passo in avanti.

Ha cominciato Nadia Toffa, narrando di sé, con un appello: “Non trattateci da malati, noi malati di cancro siamo dei guerrieri, dei fighi pazzeschi!”.

Ha proseguito Daria Bignardi: “La chemioterapia fa schifo, ma serve (…). Avevo la parrucca. L’ho portata per diversi mesi, era molto carina, capelli identici ai miei, anzi più belli. Poi andando avanti e indietro in continuazione tra Milano e Roma, a gestire ’sta parrucca, a un tratto, non ce l’ho fatta più. Un bel giorno l’ho tolta dalla sera alla mattina e mi sono presentata al lavoro con i capelli corti e grigi che stavano ricrescendo sotto”.  Non nascondiamoci – dicono – e voi non volgete lo sguardo altrove. Parlare è già guarire un po’.

E quaggiù, a Palermo, in Sicilia, quanto è alto il muro e quanto è forte la dolcezza che vorrebbe scavalcarlo con gli strumenti della pazienza? Cosa comunica chi è davvero sul campo, in trincea?

Nicolò Borsellino, direttore dell’Unità Operativa di Oncologia Medica del ‘Buccheri La Ferla – Fatebenefratelli’, è abituato a corroborarsi con i fatti. E dai fatti nasce la sua speranza di capovolgere i luoghi comuni dell’indicibile. “Partiamo dai numeri – inizia – il cancro in Italia registra un netto miglioramento nelle percentuali di sopravvivenza. Più del cinquanta per cento, tra uomini e donne, guarisce, nel senso che, a cinque anni dalla diagnosi, sopravvive”. Ecco il primo elemento. Dall’indicibile si guarisce. “Il cancro – prosegue il dottore Borsellino – non è un’entità unica. Bisogna valutare storia per storia, organo di origine, biologia della malattia”.

Dunque, le cifre. “Nel 2017, secondo i dati dell’Associazione Italiana Registri Tumori (Airtum) e dell’Associazione Italiana Oncologia Medica (Aiom), a cinque anni sopravvivono l’ottantasette per cento delle donne affette da carcinoma della mammella ed il novantadue per cento degli uomini affetti da carcinoma della prostata, i due tumori con la maggiore incidenza rispettivamente nel sesso femminile ed in quello maschile. Ovviamente, se ci spostiamo su altri tumori, come quello ai polmoni e al pancreas, ci confrontiamo con entità difformi. Ma quello che voglio specificare è che la tendenza generale presenta ragioni fondate di ottimismo”. Con tanti saluti al buio.

Perché possiamo sperare, dottore? “Abbiamo screening più efficaci che consentono una diagnosi precoce ed annullano il potenziale mortale di molte neoplasie; la conoscenza del dna ci ha consentito di individuare geni responsabili della trasmissione ereditaria dei tumori, grazie ad un semplice counseling genetico oggi siamo in grado di individuare le famiglie a rischio, avviando tempestivamente controlli assidui e precoci. E poi c’è il netto miglioramento delle strategie terapeutiche a tutti i livelli. Oggi, più di tre milioni di italiani convivono con un tumore. Tanto è vero che, adesso, si pone un tema nuovo e fondamentale: come farli stare sempre meglio”.

Nicolò Borsellino è un milite instancabile della sua trincea. Alle dieci di un sabato mattina si trova già in reparto. “Certo – spiega – non bisogna né illudere, né semplificare, i percorsi possono essere articolati, difficili e complessi. Le parole di Nadia Toffa e di Daria Bignardi sono importantissime, perché rompono il cerchio del mutismo e, finalmente, di cancro si discute a viso aperto, senza nascondersi, senza tabù. E, per piacere, non voglio più sentire pronunciare, indistintamente, da nessuno il termine: ‘male incurabile’. Non è vero, non più”.

Sembrerebbe semplice. La muraglia secolare abbattuta con le evidenze, con l’aritmetica. La tensione scongiurata con l’omeopatia della realtà, in grado di buttare giù pezzi di muro. Eppure, vicino alle cose e agli operai della terapia e dell’umanità, come il dottore Borsellino, un’ombra di ignoto serpeggia ancora e nutre la lontananza. E resiste con l’alibi dell’omertà. Ancora una volta: perché?

“Abbiamo paura della morte e della sofferenza – dice Roberto Garofalo, medico palliativista dell’Asp, nato con la Samot, dotato di una acuta sensibilità personale, da narratore – e, malamente, facciamo coincidere il cancro con l’oscurità, la fine di tutto e di tutti. Si tratta di un pregiudizio radicato, se pensiamo che, nelle ricette dei medici, troviamo la lettera K, al posto di ‘cancro’, quasi un esorcismo inconsapevole”.

“Oltretutto – continua il dottore – c’è un discorso originario, a prescindere. Abbiamo sistemato il soffrire e il morire fuori dal circolo della vita, come se non ne facessero parte. Chi soffre, chi rischia di morire, è quasi considerato un alieno, uno che porta dentro cose che preferiamo fuori. E lo evitiamo, nell’illusione della nostra immortalità che vorrebbe fermare il tempo. Paradossalmente, rifiutiamo ciò che è umano, perché è umano soffrire e morire. Noi ci pensiamo eterni, come i centri commerciali illuminati a tutte le ore. La morte è uno sbaglio, una colpa, una vergogna”. Roberto, il medico, sorride con l’espressione di chi non si è mai rassegnato, pur avendo visto tutto: “Io non sono d’accordo, naturalmente”.

Ecco i mattoni che tirano su la parete. Che si potrebbe scavalcare, già da presunti sani, seguendo una voce di donna o lo sguardo di un camice bianco che crede in ciò che fa, per ritrovare parrucche, cuori e coraggio. E si potrebbe, finalmente, tornare, senza più paura di incontrarci, nella stanza d’ospedale col numero che non è mai stato rimosso. Una stanza che conosciamo bene, che ricordiamo, che sogniamo in certe notti. Lì dove si è consumato il più tenero e il più atroce degli addii.

 


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