Fino a qualche anno fa dicevi San Macuto e ti tremavano i polsi. Perché lì, in quel palazzo di arido sole, c’era la potente Commissione antimafia, fatta da cinquanta parlamentari dotati di poteri straordinari, anche quello di arrestarti seduta stante senza nemmeno interpellare la magistratura inquirente. Dicevi San Macuto e avevi però di che sperare. Perché vedevi che nella lotta contro le cosche lo Stato sapeva anche schierare intelligenze straordinarie: come Gerardo Chiaromonte che, pur davanti al sangue delle stragi o degli omicidi eccellenti, non perdeva mai di vista la cornice dei diritti entro cui andava riportata ogni legge e dunque anche quelle che nascevano dall’emergenza; o come Luciano Violante che affinò così bene il suo zelo di ex magistrato da trasformare l’ufficio di presidenza della Commissione in una sorta di corte vicaria capace di condurre un’istruttoria preliminare e di fornire alla procura di Palermo, guidata dal suo amico Gian Carlo Caselli, gli elementi necessari per imbastire il processo del secolo: quello contro il potentissimo Giulio Andreotti. Un azzardo, evidentemente. Ma erano tempi in cui si giocava pesante, dall’una e dall’altra parte, e nel contrasto a Cosa nostra il ruolo dell’Antimafia non poteva essere certamente quello di spettatrice inerte e impotente.
Oggi di tutto questo non restano che scialbe e appassite memorie. La Commissione parlamentare, presieduta da Rosy Bindi, se ne sta annicchiata nello stesso palazzo, vanta gli stessi poteri e gode degli stessi privilegi. Ma le giornate si trascinano senza uno slancio, senza un colpo d’ala; e le sedute affogano, una dopo l’altra, nella miseria di una politicheria di terz’ordine, finalizzata, nella maggioranza dei casi, a tutelare conventicole e parrocchiette cresciute nel sottobosco della retorica, o a proteggere molti di quei personaggi che ormai di antimafia mangiano e bevono.
Prendiamo ad esempio quello che è successo l’altro ieri. Non trovando altro modo di impiegare il tempo, la Commissione ha deciso di esercitarsi in un restauro e di rimettere a nuovo il ritratto raggrinzito e screpolato di Rosario Crocetta, un professionista dell’antimafia che, da governatore della Sicilia, ha recitato per quattro anni la parte del puro e duro assediato dalle cosche e da tutte le forze del male. Un’impostura, ovviamente. Perché nel frattempo il santo si è comportato da diavolo: non solo ha trasformato Palazzo d’Orleans in una baldoria di assessori – ne ha cambiati una quarantina in tre anni – ma quando si è trovato a dovere scegliere se mantenere alla guida della Sanità la severissima Lucia Borsellino, mal sopportata dagli amichetti che lui aveva nominato ai vertici di un ente ospedaliero, il paladino della legalità ha preferito fiancheggiare la lobby e non muovere nemmeno un dito per evitare che Lucia, di fronte a tanta solitudine, presentasse le sue inevitabili dimissioni. Un dettaglio, certo. Sul quale i dignitari della Commissione, riuniti a San Macuto, avrebbero potuto anche formulare una domanda, tanto per capire. Invece niente.
Sotto la regia furbesca di Giuseppe Lumia, un senatore del Pd che su Crocetta esercita da sempre una sorta di padrinaggio politico, i commissari si sono amabilmente sottratti a ogni fatica e hanno consentito al governatore siciliano di recitare comodamente il suo monologo di eroe senza macchia e senza paura. Un monologo confuso e farfugliato, il cui obiettivo era semplicemente quello di pronunciare, urbi et orbi, e in un consesso austero e sacramentale come San Macuto, una frasetta fatta apposta per evocare minacce e intimidazioni, congiure e cospirazioni ordite ai suoi danni non solo dai boss mafiosi della Sicilia, ma anche dalle consorterie criminali di oltreoceano, degli Stati Uniti per l’esattezza: “Farai la fine di Piersanti Mattarella”, gli avrebbe detto quattro anni fa, al momento del suo insediamento alla presidenza della regione, un anonimo che chiamava dall’America. Vero, falso, e chi se ne frega. Nessuno, nell’aula delle audizioni, ha avvertito l’esigenza di chiedere se il governatore avesse denunciato il fatto alle autorità competenti e se per caso fosse stata avviata un’inchiesta. I commissari ormai siedono in quell’aula come a un pranzo del Rotary: invitano l’ospite a parlare e, se proprio non succede un qualcosa di traumatico, gli appuntano pure sul bavero un distintivo o una medaglietta.
Con l’inevitabile conseguenza che, così facendo, hanno lentamente trasformato la Commissione, quella che un tempo faceva tremare i polsi ai mafiosi, in una fabbrica di aureole, in un palcoscenico a disposizione di chiunque – da Crocetta a don Luigi Ciotti – voglia mostrare le stimmate del soldato di frontiera, impegnato giorno e notte nella durissima lotta alla mafia.
Ma a che cosa è dovuta tanta rilassatezza? Da che cosa nasce questo irrefrenabile trasporto verso il quieto vivere? La risposta più facile sarebbe quella di addossare ogni responsabilità alla presidenza di Rosy Bindi e di ricordare la smargiassata, chiamiamola così, con la quale nel marzo del 2014 fu pubblicamente umiliato il prefetto Giuseppe Caruso, capo dell’Agenzia per i beni confiscati. L’alto funzionario dello Stato era arrivato in Commissione per denunciare ruberie e malversazioni attorno alle aziende e ai patrimoni sequestrati ai boss e agli imprenditori in odore di mafia. Ma nel minuto in cui cominciò ad elencare gli abusi e le storture che, a suo avviso, fiorivano dentro e fuori i palazzi di giustizia, fu bruscamente interrotto; e trattato, proprio dalla Bindi, come un manigoldo dedito, chissà per quali oscuri interessi, alla “delegittimazione di magistrati che su quel fronte rischiano la vita”.
Una gaffe imperdonabile. Divenuta ancora più bruciante qualche mese dopo, quando la procura di Caltanissetta riuscì a spezzare con fatica il muro di complicità che per anni aveva protetto la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo e scoprì un’allegra confraternita di giudici, commercialisti e avvocati che, con la banalissima scusa dell’antimafia, scialacquavano tra milioni di euro e sistemavano senza rossore parenti, amici e amici degli amici. Una cosca togata, per dirla in due parole. La cui scoperta avrebbe dovuto indurre la presidente di San Macuto non solo a scusarsi con il prefetto Caruso ma anche a rivedere arroganze, atteggiamenti e convinzioni. Invece tutto le è scivolato addosso come acqua sul marmo e la Commissione è tornata – basta guardare il teatrino messo in scena l’altro ieri da Crocetta – allo sciacquettio di un’ordinaria amministrazione che, pur di non trovarsi di fronte a nuovi vermi, preferisce lasciare le pietre lì dove sono e non sollevarne più nemmeno una.
Una ulteriore conferma si è avuta la settimana scorsa. A Palermo i ragazzi di Addiopizzo, un’associazione nata dalla voglia di contrastare il racket delle estorsioni, hanno voluto celebrare il proprio impegno con una festa di tre giorni a piazza Magione. Una manifestazione, legittima e sacrosanta, alla quale la presidente della Commissione ha voluto dare la propria adesione e il proprio riconoscimento. Lo ha fatto con un messaggio indubbiamente sincero ma che, nel concatenarsi bizzarro degli avvenimenti, è risultato forse un po’ stonato. Proprio in quei giorni, infatti, il tribunale, con una sentenza finalmente liberatoria, restituiva i beni e l’onore all’architetto Vincenzo Rizzacasa che nel 2009 si ritrovò all’improvviso in una lista nera compilata dai militanti di Addiopizzo. L’associazione aveva scoperto che nei cantieri di una sua azienda, la Aedilia Venusta, lavorava uno degli Sbeglia, famiglia di costruttori già segnata dai guai giudiziari. L’architetto lo aveva pure ammesso, sostenendo che la sua scelta, apparentemente contromano, era legata allo spirito religioso di dare una seconda opportunità a chi aveva sbagliato. Ma Addiopizzo non sentì ragioni e restituì persino una donazione che Rizzacasa aveva fatto per istituire una borsa di studio da intestare alla moglie defunta. Per l’architetto e per le sue imprese fu l’inizio del calvario: Confindustria, che lo aveva tra i soci più autorevoli e stimati, decretò in quattro e quattr’otto l’espulsione; i committenti presero le distanze e mandarono a gambe per aria i contratti; i soci di Aedilia Venusta furono presi dal panico e lasciarono il titolare solo in mezzo a una strada, in attesa del colpo di grazia.
Che puntualmente arrivò qualche settimana dopo quando l’avida sezione Misure di prevenzione, quella dello scandalo denunciato dal prefetto Caruso, gli notificò il decreto con il quale metteva sotto sequestro tutti i suoi beni: duecento milioni di euro, una cuccagna per l’allegra cosca del Palazzo di giustizia.
Domanda per Rosy Bindi: oltre al messaggio fatto pervenire all’associazione antiracket in festa a piazza Magione non bisognava forse inviare un riconoscibile segno di vicinanza anche all’architetto Rizzacasa, inchiodato dal mascariamento di Addiopizzo a una gogna lunga sette anni? Per carità, nessuno vuole farne un dramma, può anche essere stata una dimenticanza. Ma l’attenzione mostrata dalla presidente Bindi nei confronti di Addiopizzo e la disattenzione riservata invece alla tragedia dell’architetto trascinato cinicamente in una spirale di dannazione, possono anche essere la metafora di una Antimafia che probabilmente non sa più guardare oltre il fumo delle parate e dei pennacchi; e che, per non correre in rischio di sporcarsi, evita accuratamente di mettere il piedino nelle pozzanghere. Un’Antimafia inutile, verrebbe da dire. Chiuderla non sarebbe un capriccio blasfemo.