Le fiamme sono un archetipo. Con esse è nato l’uomo così come lo conosciamo (e come ultimamente, ahinoi, vorremmo non averci mai avuto a che fare). Le fiamme sono purificazione (si scatenavano contro i nemici reali o ideali, streghe comprese), rivelazione (la Bibbia è piena di passi in cui Dio usa il fuoco come biglietto da visita), rinascita e prosperità (si affidavano i campi al fuoco per predisporli a nuove colture) ma anche – e questo riguarda più da vicino Palermo e la Sicilia – minaccia, ricatto, disprezzo. Assaggio di forza bruta. Somma svalutazione del bene collettivo in nome degli egoismi del singolo o del gruppuscolo. Dalle origini della civiltà, dunque, al massimo grado della regressione.
Detto questo: che nome dobbiamo dare all’incendio che ha danneggiato il gazebo per le primarie del Pd a piazza Bellini? Di certo ai responsabili, per il momento ignoti, non si può attribuire un eccessivo “calore ideologico”. Magari si potesse leggere domani: “Bruciavano dalla voglia di votare, al punto di aver scatenato l’incendio”.
Di ideologico in quel falò non c’è nulla. C’è molto di offensivo. Per tutti. Perché un luogo deputato all’espressione della volontà popolare, sia esso gazebo, tenda, banco o urna elettorale, qualunque siano la bandiera e il colore che vi sventolano, è sacro. Chi vi accede con intenzioni costruttive testimonia l’esistenza in vita della democrazia; non importa quanto malconcia, basta che respiri. Chi vi si avventa da vigliacco, con l’accendino sfavillante, dà pessima prova di sé e ci riporta a tempi oscuri e mai troppo distanti. Quelli delle squadracce fasciste che incenerivano le redazioni dei giornali, per esempio. O quelli delle cosche mafiose con la torcia pronta all’uso, al soldo di complotti più grandi della loro volgarità. Le cosche. Ex popolo, poi braccio armato delle famigerate “menti raffinatissime”.
Lungi da me la dietrologia. Probabilmente è vero che si è trattato di una banale ritorsione. Pare che prima dell’incendio ci sia stato un diverbio tra alcuni dei soliti Gesip (che ormai a piazza Bellini farebbero il bello e il cattivo tempo) e gli addetti alle firme e al voto per la scelta del futuro candidato dei democratici. “Dateli a noi, i due euro, no a quelli!”, si sarebbe sentito urlare durante la lite, in riferimento agli spiccioli che ogni votante era tenuto a versare per esprimere la preferenza. Il passo tra quell’urlo e il malevolo “mi facissi pigghiare u cafè” del posteggiatore abusivo è davvero breve. Tanto per capire che testa hanno certuni. Ma non spingiamoci oltre. Quanto e come c’entrino alcuni precari – non tutti, sia chiaro – lo appurerà chi di dovere.
Quel che rimane è un brutto – bruttissimo – episodio di ignoranza e intolleranza che vorrei (vorremmo) non diventasse un’abitudine. In quel caso, non ci sarebbe precariato, famiglia indigente e piagnistei che reggano. Nessuna giustificazione che muova alle lacrime. Se ancora si può tollerare il blocco stradale – sacrosanto, per carità – in nome di ragioni che non riguardano i più, intollerabile sarebbe lo sfregio politico veicolato ad arte e travestito da protesta. Per ragioni che, stiamo attenti, appartengono soltanto a una congrega di burattinai.