“Ho letto il giornale stasera e l’unico pensiero che mi viene in mente è che sei un buffone. Ti invito a darmi querela con la promessa che ti darò la prova che sei un buffone”. E’ il contenuto di una lettera di molti anni fa. Destinatario: “On Attilio Ruffini, via Ariosto 12, Palermo”. Mittente: “Vito Ciancimino, via Sciuti 85, Palermo”. Cosa aveva detto di tanto ferale il chiacchierato notabile della Democrazia Cristiana Attilio Ruffini per irritare fino a tal segno il chiacchieratissimo notabile della Democrazia Cristiana, Vito Ciancimino?
E’ una vecchia polemica che emerge tra le carte del processo Mori. E’ un guizzo dentro un pezzo di storia quasi ammuffita nel soffitto delle cose di pessimo gusto. La vicenda terrena dello Scudocrociato e dei suoi seguaci.
Tutto nasce da un’intervista rilasciata da Ruffini, “ministro degli Esteri da pochi giorni,” ad Antonio Calabrò, a quei tempi cronista in forza a il “L’Ora”, il diciannove gennaio del 1980. Titolo: “Non ho amici tra i mafiosi” Domanda del segugio giornalista circa il delitto Mattarella: “Si può parlare di delitto voluto dalla mafia?”. Risposta elusiva dell’onorevole ministro: “Ma quale mafia?”. Domanda: “Dicono che della mafia sappia molte cose”. Risposta: “Se è vero che il mondo della mafia si muove attorno agli affari, agli appalti, io le dico che non so come e quando si fanno gli appalti, non conosco gli appaltatori. Tutte cose verificabili. Mi nasce allora il dubbio sull’onestà intellettuale di chi scrive o mette in giro certe voci”. Calabrò: “Le voci vengono anche dall’interno della DC. Sembra che lei abbia molti nemici nel suo partito”. Ruffini: “Spero… mi auguro… ritengo di no. Certo ci saranno invidie, gelosie, ma solo a livello modesto. Non certo da parte dei leaders”.
“Lei è stato rieletto nel giugno scorso, alla Camera, con oltre centomila preferenze. Primo in lista. Dicono che una mano d’aiuto, per avere tanti voti, gliela abbiano data gruppi di mafia”. “Non è vero. Sono falsità. Mi hanno aiutato non solo gli amici del mio gruppo, ma anche quelli di altri correnti: Mattarella, Lima, Forze Nuove”. Domanda del cronista – il presumibile punto scatenante della furia cianciminiana -: “Anche Ciancimino sostiene di aver fatto votare per lei”. Gelida risposta: “Non ho mai visto Ciancimino, durante la campagna elettorale. E non mi risulta che mi appoggi. Se fosse stato vero, non avrei avuto difficoltà a dirlo. Ciancimino è pur sempre un dirigente di partito, anche se a quel posto non l’ho messo io”. Frasi immerse nel ghiaccio di una tangibile lontananza. E la risposta di don Vito, ribollente d’ira, non si fece attendere, via posta: “Ti darò la prova che sei un buffone”. L’insulto peggiore. Buffone, cioè cosa inutile, quacquaracquà. Non è che il lessico dell’insulto fosse forbito. Si badava al sodo in quei giorni sodi. Per esempio, Salvo Lima dava del “ricchione” tout court ai nemici politici. Buffone, ricchione, cornuto. Così si appellavano tra di loro gli amici, i buoni e vecchi amici, della Democrazia Cristiana. R.P.