PALERMO – Uno si è consegnato, dopo avere cambiato aria per un po‘. L’altro si è pentito perché, dice, “temo per la mia vita e dei mie familiari”. Quella di Carmelo Bartolone – il fuggiasco – e di Sergio Flamia – il collaboratore – sono scelte diverse, accomunate, però, dalla paura di essere ammazzati. Perchè Bagheria è un mandamento in fibrillazione.
Cominciamo da Bartolone. La sera del 10 settembre scorso, poco dopo le undici, è arrivato all’ospedale Civico di Palermo. Si è avvicinato al metronotte: “Sono Carmelo Bartolone e sono un latitante”. La lombosciatalgia di cui ha dettodi soffrire era un pretesto per chiudere la sua breve latitanza. Il 4 dicembre 2012 i carabinieri avevano bussato alla sua porta di casa. Un controllo di routine per uno come Bartolone sottoposto alla sorveglianza speciale dopo avere finito di scontare sette anni e mezzo di carcere per associazione mafiosa. Era uno dei fiancheggiatori di Bernardo Provenzano, condannato al processo “Grande mandamento”. Dall’armadio mancavano una valigia e alcuni indumenti. Bartolone diventava ufficialmente latitante. E tale era anche l’8 maggio, quando i militari del Nucleo investigativo sono andati a notificargli un ordine di arresto. Secondo l’accusa, sarebbe uno degli due uomini fidati del capomafia Gino Di Salvo.
L’altro sarebbe Sergio Flamia che il il 7 dicembre 2012, parlando con Vincenzo Gagliano, anche lui finito in cella nel blitz di maggio, non lesinava critiche sul comportamento di Bartolone: “Perché è buono che… domani dovesse venire sua moglie che lui ha bisogno aiuto… – diceva Flamia – per me può morire… lui l’aiuto lo deve andare a cercare dagli amici suoi…”. E aggiungeva: “… no da noi… che noi siamo stati amici suoi… ma lui amico nostro non c’è stato… perché nel momento del bisogno lui non si è fidato degli amici…”. Gli investigatori hanno pochi dubbi: Bartolone si era dato alla macchia per evitare i proiettili. E si era rifugiato a Ferrara dove progettava di aprire una discoteca. E giù nuove critiche da parte di Flamia che lo definiva un “megalomane” circondato da “truffaldini”. “Ed è tanto cornuto… capace che pensa che sono io che lo volevo portare a morire…”, diceva ancora il neo pentito. Un violento che appellava sbirro l’avvocato Enzo Fregalà, ucciso a colpi di bastone, perché faceva rendere dichiarazioni ai suoi clienti, e che si presenteva con metodi irruenti dai commercianti per chiedere il pizzo. Ne sa qualcosa Gianluca Calì, titolare della concessionaria Calicar di Altavilla, che andò dritto, senza esitazione, a denunciarlo.
Secondo la ricostruzione degli investigatori, Bartolone, forse per via di alcuni investimenti sbagliati fatti con i soldi del clan, doveva guardarsi le spalle proprio da Di Salvo e da Flamia. Nonostante ciò, di recente era tornato in Sicilia. Per provare una reazione armata oppure per un tentativo estremo di mettere a posto le cose? Sta di fatto che a metà settembre si è consegnato. Un mese mezzo dopo quello che sembrava essere il suo nemico, Sergio Flamia, ha deciso di pentirsi. È sicuro che lo volessero ammazzare.
Una paura che rappresenta una conferma indiretta delle dichiarazioni di un altro collaboratore di giustizia. Dopo gli arresti di maggio, Giuseppe Salvatore Carbone, colui che fece ritriovare i corpi dei narcos canadesi Ramon Fernandez e Fernando Pimentel, raccontò i retroscena del delitto e aggiunse: “Pietro diceva: ‘Dobbiamo ammazzare a Flamia Sergio’…. Sergio Flamia un giorno ha fatto mandare Michele Modica, mio fratello Andrea Carbone e Giovanni Calì a farlo prelevare a Salvatore (Scaduto ndr) a casa di sera…”.
Chi avrebbe emesso la sentenza di morte, non eseguita, per Bartolone e Flamia? Su questo interrogativo si concentrano le indagini della Procura per svelare, probabilmente, anche in nuovi equilibri del ricco e potente clan mafioso di Bagheria. Indagini che si intrecciano con quelle dei carabinieri del Ros e del comando provinciale di Palermo che si spostano oltreoceano per fare luce sulle decine di cadaveri rimasti per strada nel corso della faida Italo-canadese. Due vittime, Juan Ranon Fernadez e Fernando Pimentel, sono state ammazzate a Palermo. Dal Canada erano arrivati in Sicilia per fare soldi con la droga.