Guida allo sputtanamento dell’avversario nella politica del mascariamento. Il titolo in libreria non lo troverete. Ma il vademecum che non c’è dovrebbe essere distribuito ormai all’ingresso di ogni assemblea elettiva che si rispetti. Tanto per non restare indietro e aggiornarsi, rimanendo al passo con i tempi. Nell’era di quella che Luciano Violante ha definito “società giudiziaria”, con codicilli e certificati dei carichi pendenti che hanno sostituito l’etica pubblica, l’arma più a buon mercato nell’agone dei partiti senza politica resta quella del mascariare.
E attenzione, non si parla qui della coraggiosa denuncia del malaffare, dello sfidare il muro dell’omertà come un tempo facevano certi politici senza paura di un’era che fu. La strategia del mascariatore poggia le sue basi su tutt’altra logica. Ben più spicciola. E figlia di quella ondata che travolse l’Italia ai primi anni ’90, gettando le basi di un collaudatissimo sistema, legittimato da tonnellate di scritti dalle prestigiose (e potenti) firme.
Un tempo serviva la condanna, possibilmente passata in giudicato, per marchiare il soggetto in questione. Nel rispetto dello spirito costituzionale. Che poi, certo, essendo codice penale ed etica pubblica due cose distinte, certi comportamenti conclamati e censurabili non necessitavano e non necessiterebbero tutt’ora l’attesa della Cassazione per suggerire alla politica di estrometterne i protagonisti. Ma questa è un’altra storia. Che avrebbe qualcosa a che spartire, appunto, con l’etica e con la Politica (P maiuscola non casuale). La strategia del mascariamento poco ha a che fare con l’una e con l’altra.
La tecnica è collaudatissima. Si prende il nemico di turno e si aggira l’incomodo di affrontarlo sul terreno dei contenuti e del merito ricorrendo alla scorciatoia del marchio dell’infamia.
Negli anni dell’avvento della “società giudiziaria”, quelli di Tangentopoli, la lettera scarlatta era il famigerato avviso di garanzia. Cioè quell’atto che la legge impone agli organi inquirenti a garanzia, appunto, dell’indagato, presunto innocente. E che negli anni d’oro degli aedi del pool milanese si trasformò in breve nel marchio di Caino per antonomasia. Avviso di garanzia uguale manigoldo. Vecchia storia, ancora comoda adesso.
Ma col tempo ci si è spinti oltre. Perfezionando lo strumento. Non serve più l’incomodo dell’avviso di garanzia, che i pm sono tenuti a recapitare quando si deve compiere un atto di indagine che richiede la presenza del difensore. Oggi basta l’iscrizione al registro degli indagati, che sarebbe atto segreto, segreto di Pulcinella quando fa comodo che finisca sui giornali. Il tizio è indagato, magari lo apprende dalla stampa, ma che vuoi che cambi?, il marchio c’è, e tutti muti. Così saltano i governi, delle Regioni o persino dello Stato, chi si ricorda il caso Mastella? Anche se magari nove anni dopo tutto finisce con un’assoluzione, con dieci righe in taglio basso a pagina 20, quando va bene.
Se poi l’indagine si sgonfia dopo qualche mese, se poi magari neanche si arriva al processo perché il primo giudice terzo che passa archivia tutto, magari perché l’indagine era sintetizzabile con la celebre recensione di Fantozzi alla Corazzata Potemkin, questo conta poco nella strategia dello sputtanamento. Per il momento l’indagine c’è. E per “gravissimi reati”, sempre e comunque, quali che siano le pene edittali previste, tutti “gravissimi” sono per il moralizzatore di comodo, pure il più sfasciato abuso d’ufficio da duecento euro.
Ma alle volte, non serve neanche angustiarsi ad aspettare l’indagine. Lo sputtanatore più scafato lo sa bene. Può bastare la parentela. Un fratello inquisito, un cognato indagato, un padre condannato quarant’anni addietro. Il gene dell’infamia si trasmette nei cromosomi come il colore degli occhi o il mento pronunciato. E non si parla necessariamente di mafia, dove il contesto familiare a volte (ma non certo in automatico) potrebbe avere il suo peso. Basta una truffarella del cugino di secondo grado e il gioco è fatto: il nemico è un “parente di”.
E sì, ma alle volte, pur scatenando i migliori dossieristi in circolazione, né manco un parente, un compare d’anello o un compagno d’asilo si trova, che faccia al caso. Niente paura. C’è ancora un’altra carta da giocare. Cioè, prendi un’inchiesta, ti sfogli le duemila pagine di intercettazioni riportate dal maresciallo di turno, e trovi qualche telefonata del tizio che devi mascariare con un indagato. Dice: ma è indagato pure lui? No. Ma che importanza ha? Sei “intercettato”, un po’ meno di indagato ma la spruzzata di fango è salva.
Se poi il nemico da sputtanare ha la cattiva abitudine di parlare poco al telefono, niente paura. Può darsi che in un brogliaccio dimenticato, in uno straccio di informativa impolverata, insomma, in un pezzo di carta qualsiasi, il bersaglio di turno venga menzionato da qualcuno a sua volta indagato e intercettato. È fatta comunque: il tizio è “finito nelle carte dell’inchiesta”. E tanto basta. Consigliato l’uso dell’espressione “il suo nome è venuto fuori nell’inchiesta”: il concetto di “venir fuori” evoca infatti scenari torbidi e segreti meglio di altri.
Se alla fine sei così sventurato da non trovare nulla di tutto questo, niente paura. Puoi sempre pescare un’amicizia o al limite anche una comune militanza politica. “Era nello stesso partito di”, “era assessore nella giunta di”, “era in lista con”, “era vicino a”. Certo non è il massimo, ma può funzionare.
Si obietterà che così lo sputtanamento può colpire praticamente tutti, o quasi. Poveri ingenui, se non lo avete ancora afferrato, è proprio questo il bello. E il paradosso è che quando tutto diventa impresentabile, niente è impresentabile. E le mosse più spregiudicate e indigeribili – che, tanto per agganciarsi all’attualità, in queste elezioni regionali certo non mancano – finiscono in un’unica, variopinta insalata con il solo effetto di confondersi in mezzo al potpourri. Ma per i mascariatori professionisti questo è un dettaglio insignificante.