PALERMO – Adesso c’è l’ufficialità: il latitante Giovanni Motisi non è morto in Colombia.
Per essere più precisi il boss in fuga da decenni non è deceduto in una clinica a Calì, ma la pista colombiana resta in piedi così come le ricerche in Sudamerica dove altri boss si sono mossi e continuano a farlo con agilità.
Gli investigatori hanno eseguito lo screening di tutte le cliniche e gli ospedali della città colombiana per verificare la notizia pubblicata lo scorso febbraio dal settimanale “Gente’. Esito negativo: non ci sono italiani morti.
Gli accertamenti della Procura
La Procura di Palermo ha affidato gli accertamenti ai poliziotti della squadra mobile partendo dalla notizia pubblicata dal fotoreporter Antonello Zappadu.
Zappadu ha raccontato che Motisi – oggi ha 66 anni – era pronto a farsi intervistare. Così aveva detto il suo gancio in Colombia. Nel giugno 2022 il boss di Pagliarelli “voleva consegnarsi in Italia perché stava male”. Poi tutto è saltato a causa dell’aggravarsi delle condizioni cliniche del capomafia colpito da un tumore. Zappadu non ha parlato direttamente con Motisi, ma si era detto certo della sua fonte.
Le indagini sono state estese in altre strutture sanitarie e c’è voluto tempo per completarle. Capitolo chiuso? Quello su decesso sì, ma il fascicolo resta aperto. E dentro ci sono altre piste sudamericane. Inevitabile che sia così anche e soprattutto alla luce della storia di un altro boss, Giuseppe Calvaruso.
Quando non era ancora diventato un capomafia, Calvaruso aveva mostrato di che pasta fosse fatto mettendosi al servizio del padrino per il più delicato degli incarichi: coprirne la latitanza.
Le ultime tracce
Le ultime trecce certe sul “pacchione” (così viene soprannominato il padrino) sono legate a Calvaruso, poi è sparito nel nulla. Gli danno la caccia dal 1998. Deve scontare, tra le altre, una condanna all’ergastolo per l’omicidio del vice capo della Mobile di Palermo Ninni Cassarà, trucidato a colpi di kalashnikov il 6 agosto del 1985 insieme all’agente Roberto Antiochia mentre rientrava a casa.
Le famiglie di Calvaruso e Motisi sono da sempre molto legate. “Cara zia e zio come state? Spero bene anzi benissimo. Mi mancate molto ma saprò aspettare: sicuramente ci sarà il giorno in cui ci rivedremo sarà un giorno di felicità sia per voi che per noi, basta avere fede in Dio”: così scriveva la sorella di Calvaruso.
Seguendo i Calvaruso, gli investigatori identificarono due luoghi dove certamente si era fermato il latitante: una villetta a Casteldaccia e una casa in via Enrico Toti, poco distante dall’Università di Palermo.
“Gli unici che ci andavamo eravamo io e lui…”, diceva nel 2016 Calvaruso di se stesso e del fioraio Vincenzo Cascino, riferendosi alla frequentazione con il latitante. Anni prima la moglie di Motisi era stata vista entrare nel negozio di Cascino “La Violetta” in via Maqueda.
A Casteldaccia la famiglia Motisi si era riunita nel 1999 per festeggiare il compleanno di uno dei figli del boss.
Il nome di Calvaruso è da sempre legato a chi ha guidato il mandamento di Pagliarelli: Motisi, Settimo Mineo (che ha presieduto la riunione della cupola convocata nel 2018 in una casa a Baida), Gianni Nicchi e Vincenzo Giudice. A un certo punto, quando sono finiti tutti in carcere, la scelta cadde su Calvaruso.
I pentiti hanno riferito che fu lo stesso Mineo a designarlo suo erede. “Ora il corto (di Calvaruso non veniva fatto il nome) deve entrare… non c’è nessuno, gli tocca. Gli serve il ricambio”, dicevano di lui.
Il giro di soldi
Nel frattempo Calvaruso si è dato un gran da fare nella città brasiliana di Natal dove ha costruito una fortuna soprattutto con gli investimenti nell’edilizia.
Un vorticoso giro di soldi, un intreccio di affari che parte da Palermo e arriva fino in Brasile, passando per Rimini, Milano, la Svizzera, Singapore e Hong Kong.
Una storia di amicizie “mafiose” che resistono al tempo e al carcere. Come quella fra Calvaruso e Antonino Spadaro, figlio del re del contrabbando, don Masino della Kalsa, e fratello di Francolino.
Fra le prime cose che fece Antonino Spadaro, quando finì di scontare la pena nel 2008: si regalò una vacanza proprio a Natal. Dalla città brasiliana arrivava Calvaruso il giorno di Pasqua 2021 quando lo arrestarono in aeroporto a Palermo.
Del “pacchione” qualche tempo fa la polizia ha diffuso nuovo identikit. Motisi è vivo, anche se qualcuno in passato ha messo in giro la voce che fosse morto.
Nel 2007 Gianni Nicchi, ‘u picciutteddu, il ragazzo diventato capomafia a Pagliarelli, il regno di Motisi, aveva dato mandato di trovare un collegamento con il latitante. Gli serviva il suo benestare per contrastare Salvatore e Sandro Lo Piccolo, signori di San Lorenzo.
Il collaboratore di giustizia Angelo Casano, che per un periodo è stato subalterno di Motisi, ha raccontato che nel 2002 il boss fu destituito dalla reggenza di Pagliarelli. Al suo posto tornò Nino Rotolo, trasferito ai domiciliari per motivi di salute e ormai da anni di nuovo al 41 bis: “Motisi aveva una gestione molto strana del mandamento. Non si faceva mai vedere, non dava mai risposte. Rotolo mandò a chiamare Motisi per avere spiegazioni”.
Casano sapeva pure che Motisi accettò la destituzione per occuparsi solo ed esclusivamente della latitanza, e venne accompagnato dalle parti di Agrigento dove si sarebbe nascosto nel 2004.
All’inizio degli anni Duemila la moglie di Motisi, Caterina Pecora, figlia del costruttore Francesco, chiese di potersi rifare una vita. Inizialmente, era arrivato un no. Poi, Rotolo ci ripensò. “Se un domani dovesse venire qualcuno mandato da Giovanni (Motisi ndr), cerca me e io so cosa gli devo dire – spiegava Rotolo – questo te lo posso promettere: bello mio, tu te ne sei andato e non ti sei preoccupato”.
I saluti di ‘Alessio’
Il 20 giugno 2017 Gaetano Scotto, mafioso dell’Arenella, parlava con il nipote: “… mi manda sempre i saluti di Alessio, di Messina Denaro, questo che non c’è più, questo che è latitante. Dice: a me ci sono persone che mi parlano sempre di te… parla sempre di te… il mio idolo dice… ieri l’ho visto mi è venuto a cercare”. Alessio è il nome che Messina Denaro usava per firmare la corrispondenza con Bernardo Provenzano.
Il soldato di Porta Nuova e collaboratore di giustizia, Alessio Puccio, sul conto di Giuseppe Auteri, boss di Porta Nuova latitante per un anno e mezzo, spiegò di avere saputo che era “impegnato in una cosa molto importante”. Giuseppe Incontrera (assassinato alla Zisa) “non mi ha specificato di cosa si trattava… non ho chiesto più informazioni perché non si può. Non bisogna essere troppo curiosi e non si chiede punto, quello che ti dicono lo ascolti ma non chiedi”. Questa “cosa importante” era legata ad un parente di Motisi.
Il principio vale per tutti: o millantavano oppure, se è vero che hanno cercato Motisi, non si cerca qualcuno che è morto.