PALERMO – “Antonino Di Maggio gestiva la famiglia mafiosa di Carini secondo i canoni tradizionali, con un ferreo controllo del territorio ed estorsioni diffuse ai danni dei commercianti che lo rendevano un vero e proprio accentratore”. Gli investigatori della squadra mobile di Palermo descrivono così il nuovo capo del clan di Carini, smantellato oggi dall’operazione che ha portato all’arresto di nove persone nel grande centro alle porte della città.
Di Maggio, boss “vecchio stampo” di Cosa nostra, non aveva un telefono cellulare e per le comunicazioni si affidava a terze persone, soprattutto a Vincenzo Passafiume, una sorta di “factotum” che lo metteva in contatto con chi gli chiedeva di risolvere, intervenire o decidere sulle “questioni” che riguardavano il territorio, come le intercettazioni disposte dai pm Amelia Luise, Roberto Tartaglia e Annamaria Picozzi hanno dimostrato.
Il suo nome era già emerso tre anni fa nel corso dell’inchiesta che aveva fatto scattare le manette per un insospettabile titolare di un’agenzia di pompe funebri, Alessandro Bono, anche lui tra i destinatari della misura cautelare e già in carcere.
Quest’ultimo gestiva un intenso traffico di droga a livello internazionale, con fitti contatti con il Sud America, dal quale veniva importata la cocaina. La zona di Carini, storicamente crocevia della droga, si conferma così ancora come una zona in cui Cosa nostra trova terreno fertile per i suoi affari. A gestirli, soprattutto dal 2012 al 2016, sarebbe stato proprio Di Maggio, il quale ruolo emerge chiaramente dalle intercettazioni che confermano quanto già rivelato dal pentito Antonino Pipitone, suo nipote acquisito.
Dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia emerge il ruolo di vertice all’interno della famiglia mafiosa, una scalata cominciata alcuni anni prima, quando Di Maggio era l’uomo di fiducia degli zii del pentito, Vincenzo e Giovan Battista Pipitone, ricoprendo anche il ruolo di cassiere della cosca.
Per lui le manette sono scattate proprio nel 2016, con l’accusa di aver partecipato al duplice omicidio di Giuseppe Mazzamuto e Antonino Failla, delitto di cui, oltre a Nino Pipitone, aveva già parlato il pentito Gaspare Pulizzi. Ma prima del suo arresto, Di Maggio poteva contare su un altro “braccio destro”. Passafiume non sarebbe stato, infatti, il suo unico collaboratore, visto che anche Salvatore Amato e Fabio Darrica, erano a disposizione del capofamiglia per la gestione dell’attività estorsiva e dei rapporti con coloro che si occupavano del traffico di droga. Passafiume e Amato, si occupavano anche di altri affari, come la compravendita di un terreno di Villagrazia di Carini, un’area dal valore di circa seicento mila euro il quale ricavato sarebbe finito proprio nelle casse del clan.