Tutti dicono: ma chi è quello là? Quello che ciondola come un tenero alberello sul prato di Livorno. Quello che con la Juve era un treno. Le maglie bianconerissime sembravano una malinconica e unica rotaia, quella notte al “Barbera”. Sola andata verso la sconfitta per Ferrara & Co. E lui a passarci sopra. Lui, Javier, il Pastore di palloni. Gli basta un fischio e la sfera, docilmente, lo viene a cercare. Scodinzola da cane. Fa le fusa da gatto. Basterebbe la circostanza per capire la differenza tra uno come Gattuso e uno come Javier. Il primo ringhia per farsi obbedire dal pallone. Il secondo fischietta. Non ha bisogno di alzare né la mano né la voce. Javier ci ha riempito gli occhi al “Barbera” con la Juve. A Livorno è affogato nel suo nonsense sudamericano. Passetti malmessi di danza, passaggi sbagliati, il pallone che gli scappa, come a un Gattuso qualsiasi. Fino alla disperata sostituzione. E adesso tutti dicono: la maturità, ci vuole la maturità, come se davvero sapessero cosa significa. Deve adattarsi. Gli schemi, gli schemi. Non lo capiscono. Non lo capiamo che Javier è un poeta. Non sappiamo che la poesia è uno stato di grazia. Accende la luce quando decide lei e irrora il mondo di colori mai visti. Altrimenti è buio, crepaccio, sconforto. Ora, Pastore dobbiamo accettarlo così, non sarà mai un altro. Con i suoi versi magnifici e lancinanti. Con le sue pause. Lui, Javier, non avrà mai la continuità dei normali. Ma, quando meno ce lo aspettiamo, sarà capace di risvegliarsi e svegliare il nostro cuore. Ci farà saltare in piedi, strillare, strappare i capelli (per chi ce li ha) e battere le mani come quando eravamo bambini. Non credete che questo valga il prezzo del biglietto? Forse vale perfino di più, anche se è un attimo. Vale il prezzo di una vita intera.
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