PALERMO – “Siamo invisibili. Senz’acqua calda, né scarpe, né vestiti. Vogliamo solo essere ascoltati”. L’urlo dei migranti siciliani è affidato a una lettera. L’hanno “virtualmente” sottoscritta circa centocinquanta di loro. Senza però aggiungere un nome, né una firma al documento. Hanno paura di qualche ritorsione, di qualche reazione.
Perché nei Centri di accoglienza straordinari siciliani, spesso, il clima è teso. Al limite. Come al limite sono le condizioni raccontate da molti uomini e donne, ascoltati durante un monitoraggio compiuto dal Arci palermitano “Porco Rosso”. “Siamo i migranti che risiedono in alcuni dei CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) della Provincia di Palermo. Veniamo da diversi paesi, Gambia, Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Senegal, Guinea Conakry, Sierra Leone, Bangladesh, ma oggi la nostra voce è una sola”. Così inizia la loro lettera.
Un racconto che è un elenco di disagi e difficoltà. Ma sono gli stessi migranti a non puntare il dito contro il sistema dei Cas, semmai contro specifiche difficoltà. “Se non si conoscono questi fatti – spiega Giulia Gianguzza, attivista del circolo che ha portato avanti il monitoraggio – si finisce per dare per buone le descrizioni di migranti viziati, pronti a protestare perché non apprezzano il cibo italiano o perché vorrebbero chissà quali comfort”.
Nella loro lettera, anzi, i migranti si dicono “grati di essere stati accolti dall’Italia dopo il lungo viaggio che abbiamo dovuto affrontare”. Ma da allora, sono rimasti così, sospesi, senza documenti, senza una risposta, senza un orizzonte più o meno visibile. In un limbo. In attesa di venire convocati per la verifica del diritto all’asilo e in qualche caso persino per presentarla, quella domanda. Lì, nei Centri di attesa straordinaria, dove spesso rimangono relegati per dieci, undici, quindici mesi.
“Sappiamo – dicono infatti – che non dovremmo restare così tanto in centri di accoglienza ‘straordinaria’. Chiediamo di essere ascoltati. I tempi per avere i nostri documenti sono infiniti. In questi tempi lunghi non sappiamo cosa aspettarci e siamo molto confusi sulla nostra condizione”. Una condizione incerta “che alimenta – spiega l’attivista dell’Arci – la tensione, il nervosismo. Che spesso sfocia in manifestazioni di protesta o, in qualche caso, nel blocco di una strada. Ma queste persone – aggiunge – non hanno a disposizione altro modo per farsi sentire”.
“Cosa fare – chiedono infatti gli immigrati nella lettera – se stai in un centro da un anno e tre mesi, non hai i documenti né informazioni, non hai lavoro e se stai male non hai la cure specifiche? Se quando hai bisogno di qualcosa di fondamentale ti viene risposto di andartene se non ti piace il posto dove stai? Siamo richiedenti asilo, dove dovremmo andare? Un centro di accoglienza dovrebbe accogliere e aiutare: che senso ha tutto ciò? In alcuni casi veniamo anche minacciati: ci dicono che non avremo i nostri documenti se continuiamo a lamentarci. Se chiediamo più informazioni, capita che veniamo cacciati via”.
Un’attesa lunga, quindi, spesso vuota di notizie e novità. “Durante questa attesa, – denunciano però gli immigrati – le condizioni di vita sono degradanti per la persona umana. In uno dei Cas l’acqua viene aperta solo due volte al giorno, per un’ora, ed è sempre fredda. Se ci serve l’acqua in altri momenti della giornata dobbiamo prenderla noi stessi dalla cisterna, dove l’acqua è putrida e maleodorante, non va bene neanche per gli animali…e noi siamo essere umani. Altro problema – proseguono – è il cibo: vorremmo almeno avere la possibilità di cucinarci da noi. In un altro centro, non ci danno neanche i vestiti necessari, e molti di noi arrivano qui direttamente dal porto di Palermo, senza niente. I vestiti che abbiamo – proseguono – ci sono stati dati da altri fratelli che erano nel centro da prima di noi. Ma è quasi novembre, in montagna fa freddo, e molti di noi hanno ancora le infradito. In un altro centro ancora, – aggiungono – quando è venuta la polizia per i controlli della struttura, gli abbiamo detto che c’è freddo, che dormiamo vestiti e non c’è il riscaldamento: c’è stato risposto che in Africa non abbiamo il riscaldamento. A chi rivolgersi per segnalare delle ingiustizie?”.
E la prima segnalazione è arrivata proprio agli sportelli del circolo Arci di Palermo. “Da quel momento è partito il nostro monitoraggio – spiega Giulia Gianguzza – e abbiamo potuto purtroppo verificare che i migranti dicevano la verità. Nessun attacco specifico ai Cas, ma non si può negare che i centri hanno alcune criticità. I migranti – conclude – Si sentono isolati, anche perché i centri sono spesso lontani due ore dal primo centro abitato, in vecchi hotel riconvertiti, nei boschi e tra i monti siciliani”. Isolati, ghettizzati, in infradito. In attesa di una notizia.