01 Maggio 2014, 07:59
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La battuta è scontata. Il Primo Maggio celebra la festa del lavoro che non c’è. Una festa destinata a parlare soprattutto del dramma della disoccupazione, della difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro, del fenomeno dell’emigrazione della Sicilia che si collega alle due criticità prima accennate. Il lavoro che non c’è dipende da più fattori: la crisi economica, il costo del lavoro stesso, la rigidità dei contratti, il mancato incontro tra competenze acquisite e competenze necessarie, il basso tasso di fiducia sulle future prospettive nutrito dalle imprese che hanno bloccato o rinviano i loro investimenti. Vogliamo qui guardare al problema sotto un profilo generalmente poco richiamato. Quanto è estesa la disoccupazione, ad esempio, in Sicilia? Vedremo che al di là delle usuali citazioni statistiche sul fenomeno è assai difficile da quantificare e probabilmente più estesa rispetto alle conoscenze istituzionali. Ma la stessa indeterminatezza vale per l’occupazione. Proviamo a dimostrare.
Nei discorsi comuni la disoccupazione in Sicilia è estesissima. Finisce addirittura col sommarsi ad una nuova categoria: i cosiddetti neet, soggetti cioè che non studiano (non education), né lavorano (employment) né seguono attività di formazione professionale (training). Qualunque persona intervistata sul tema può fare riferimento a casi di disoccupazione, a lui vicini, di figli, nipoti, parenti vari. In ogni famiglia siciliana, con poche eccezioni, insomma, si vive, con gradi ovviamente diversi di preoccupazione, questo dramma. I dati (Annuario Statistico Regionale, 2013) sono questi: nel 2012, in Sicilia, su 5 milioni di abitanti risultavano un milione e mezzo di occupati, trecentomila disoccupati, ed un milione e seicentomila inattivi, persone cioè che si dichiarano in condizione non professionale, non svolgono alcuna attività lavorativa né hanno in precedenza cercato lavoro.
Sono compresi nel dato militari, servizio civile, inabili e persone fino a 14 anni di età. Il tasso di attività ( il rapporto percentuale cioè tra le persone appartenenti alle forze lavoro, tra i 15 ed i 64 anni, e la corrispondente popolazione di riferimento) è pari al 51%, il tasso di occupazione al 41% (rapporto tra occupati e popolazione)e quello di disoccupazione al 19% (rapporto tra persone in cerca di occupazione e forza lavoro). Ma, capovolgendo l’ottica della ricognizione, chi sono gli occupati? Seguiamo la definizione: persone da 15 anni in su che nella settimana di riferimento (quando cioè si svolge la rilevazione dell’ISTAT limitata ad un campione rappresentativo) hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura. O che abbiano svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nel quale collaborano abitualmente. Qualche esemplificazione illuminante.
Il figlio del gommista di sedici anni che non ha ancora esaurito il cosidetto obbligo formativo (licenza media) ed aiuta il padre di tanto in tanto nella sua attività è considerato occupato con evidente effetto di sovrastima. Così come un dipendente contrattualizzato che guadagni però solo 300 euro al mese Al contrario, un lavoratore in nero che dichiari per paura di sanzioni di non svolgere alcuna azione attiva di ricerca di occupazione viene considerato disoccupato. Anche se, ricorrendo a procedure irregolari viene retribuito magari con somme cospicue. Qui non c’è una sovrastima ma sicuramente una distorsione nel senso che il lavoratore in nero non può considerarsi sic e sempliciter un disoccupato. Ma lo è a fini statistici.
Restano ancora da citare i neet. Cosa fa un soggetto che non studia né lavora? E’ disoccupato ma per definizione non rientra nella cosiddetta forza lavoro. Poiché il tasso di disoccupazione è misurato dal rapporto tra persone in cerca di occupazione e forza lavoro s’intuisce subito che diminuendo il denominatore del rapporto viene a calcolarsi una stima della disoccupazione più contenuta e quindi in certo senso poco rappresentativa. Insomma, quando proviamo a studiare occupazione e disoccupazione non sempre le statistiche ci restituiscono “dati parlanti”. E anche le variazioni dei relativi tassi di anno in anno possono risentire di sovra o sotto stime e di distorsioni.
Oltre questo esercizio resta ovviamente tutta la sofferenza della disoccupazione, del non avere un lavoro regolare, del doversi “arrangiare” esibendo spesso attestati di condizione falsi. La realtà travolge e ridimensiona la statistica. La lettura della disoccupazione tanto più risulta esatta quanto più si focalizza sull’osservazione diretta più che sull’esame di freddi tassi puramente orientativi. Altrimenti finiamo col parlare di un lavoro che non sappiamo né quantificare né legalizzare.
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01 Maggio 2014, 07:59