La mafia, lo rivelano continue inchieste della magistratura, tenta di riorganizzarsi. Le recenti scarcerazioni di uomini fedelissimi al defunto boss Matteo Messina Denaro, per tecnicismi procedurali su cui è meglio sorvolare, non fanno presagire nulla di buono nonostante il divieto di dimora in Sicilia disposto dai giudici. Inoltre, ancora molti commercianti non denunciano il pizzo, anzi, negano e ancora ci imbattiamo in arresti eccellenti per scambio elettorale politico-mafioso con ulteriori contestazioni di reati, dalla truffa aggravata, pare per foraggiare campagne elettorali, al riciclaggio.
Insomma, il quadro generale non è confortante a 32 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio. Il rischio è un calo di tensione, nella comunità civile e nelle istituzioni. Forse occorrerebbe riannodare i fili della nostra memoria sulla lotta alla criminalità organizzata. Noi siciliani ne abbiamo bisogno, siamo portati a dimenticare, a rimuovere e un popolo senza memoria non ha alcun futuro, probabilmente nemmeno il diritto a un futuro.
Mi è capitato di rivedere la serie televisiva “Il capo dei capi”, mandata in onda su Canale 5 nel 2007. La storia di Totò Riina, magistralmente interpretato dall’attore Claudio Gioè, dal 1943 fino alla sua cattura avvenuta il 15 gennaio del 1993 dopo una vergognosa, lunghissima latitanza. La consiglio, è un vero bagno nella memoria, individuale e collettiva. Una sofferenza ripercorre mezzo secolo di strapotere mafioso, soprattutto con l’avvento sanguinoso e sanguinario dei ‘corleonesi’, nella quasi totale assenza dello Stato e nell’indifferenza mista a rassegnazione dei siciliani.
Nel 1982 con l’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa si intravede un timido accenno di reazione, ancora troppo impregnato di nero pessimismo e poco di volontà di agire e di riscatto: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”. Così era scritto su un foglio di carta lasciato da mani anonime sul luogo dell’eccidio. Già, i palermitani onesti, la maggioranza. Però, una maggioranza muta che ha subìto per decenni e decenni quanto di più terribile poteva accadere per colpa di brutali criminali favoriti dall’omertà, dalla paura, dalla complicità di uomini dello Stato infedeli e da una minoranza di palermitani che con la mafia faceva affari e carriera distruggendo per avidità di denaro storia, cultura, bellezze artistiche e naturali.
Solo le parole del cardinale Salvatore Pappalardo, pronunciate dinanzi al feretro del prefetto Dalla Chiesa inviato a Palermo come agnello sacrificale e a un attonito e addolorato Sandro Pertini, segnarono il principio di una rivoluzione che purtroppo dovrà attendere, per realizzarsi in modo visibile, le tragiche morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Mentre a Roma si discute sul da farsi Sagunto viene espugnata dai nemici. Questa volta non si tratta di Sagunto ma di Palermo. Povera la nostra Palermo”, gridò Pappalardo.
La folla assiepata nella Cattedrale esplose in un applauso liberatorio, qualcuno che finalmente usava parole nette, ma di libero non c’era nulla, forti rimanevano le catene mafiose strette al collo dei siciliani. C’è una scena della fiction assai emblematica, Riina che guarda dalla finestra Palermo e rivolgendosi a Bernardo Provenzano dice: “Ti sembra che puoi allungare le mani…e ta pigghi tutta”, e te la prendi tutta. Ed è esattamente ciò che accadde, in un silenzio cosmico, un silenzio assordante pure quando Riina, ormai padrone assoluto dell’organizzazione mafiosa, decise di colpire servitori integri delle istituzioni da cui si sentiva minacciato o persone perbene che avevano osato ribellarsi. Non se ne parlava in famiglia, non se ne parlava a scuola, non se ne parlava in parrocchia.
Durante le guerre di mafia il massimo che potevi udire nelle conversazioni della gente era: “ Si ammazzano tra di loro” non capendo o facendo finta di non capire che lo scopo era spargere il terrore e impadronirsi anche delle vite degli onesti per conseguire sempre più ricchezze e potere sul territorio da efficiente anti-Stato. Spenta la televisione, pensai che è una maledizione nascere in Sicilia, lo era allora, lo è adesso al di là e a prescindere dal fenomeno mafioso non sconfitto definitivamente.
È una ‘maledizione’ nascere in Sicilia perché sei costretto a campare in un eterno presente, convivendo con problemi atavici colpevolmente irrisolti. Non riusciamo a indignarci dinanzi al sottosviluppo che ci attanaglia, alla dissoluzione della sanità pubblica, alla fuga dei nostri giovani, alla mercificazione dell’ambiente, all’emergenza rifiuti, alla mancanza d’acqua. Qualcuno potrebbe ribattere che ci sono luoghi dove si sta peggio, è vero, con la differenza che noi potremmo stare meglio, molto meglio e invece stiamo male, malissimo. Fortunatamente c’è l’Autonomia differenziata, mi si perdoni il sarcasmo, un ulteriore passo verso il baratro dell’irrilevanza e dell’emarginazione. Povera la nostra Sicilia!