(rp) Questo è un buco con un articolo intorno. Non ci sono foto. Le parole sono segugi su una pista ignota. George è morto. Si era dato fuoco a Vittoria. E’ spirato all’ospedale Civico. La moglie ha lasciato intendere che fosse depresso. Non sono stati trovati riscontri alla rabbia (chissà se sono stati cercati) contro il datore di lavoro, che avrebbe generato il gesto disperato dell’uomo. George ha respirato i suoi ultimi istanti al Civico, nel silenzio più completo. Non una fiaccolata di solidarietà, nemmeno un accendino o una carezza. Nessuno è andato a trovarlo. C’è andata Martina, qualche volta. E’ la nostra cronista di strada, nel senso migliore del termine. Ha un vizio imperdonabile per un cronista: la sensibilità. Prova compassione per i derelitti di cui racconta le esistenze, si affeziona. Per il resto, poco o nulla. Una coperta di indifferenza. Non che non fosse giusto il clamore per Noureddine. Eppure, anche George avrebbe meritato una carezza, se non la protesta. Avrebbe avuto diritto a uno spazio pubblico di riflessione sulla disperazione dello straniero.
Viene in mente una favoletta cinese. Un monarca visita le sue cucine, si impietosisce del belato di un agnellino e ordina che, al suo posto, per cena, venga sacrificato il bue. E i diritti del bue?, sussurra la regina. Il re replica: “L’agnello l’ho visto, il bue no”. George è morto praticamente da solo, perché la misura della nostra partecipazione coincide con la distanza dei nostri occhi. Non costituiva un motivo sufficiente per gridare contro Berlusconi, i vigili, il sistema, l’autorità, il Papa Re… George non era nessuno.