Quanta vernice ci vorrebbe per cancellare da quei muri, che i cavalieri del lavoro hanno messo su a Catania come costruzioni della Lego, il cognome di un marito offeso dal bisturi dell’insulto, i versi dell’odio che si vergano da un computer nei siti dei manutengoli “Padova siamo noi” o da quel parco Gioeni che sovrasta Via Etnea e la segue come un occhio che guarda un rettifilo? Non c’è così tanta vernice a Catania e neppure in Italia da permettere a Marisa Grasso di passeggiare con i suoi figli nelle vie di una città e non scorgere l’insulto al padre o ancora di non vedere nella “Bellini” dei giovani un epiteto che campeggia e che nessuno si è ancora deciso ad oscurare: la lapide della memoria popolare.
Nessuno partito l’ha ancora inserita nelle liste di preferenza per un’elezione in qualche organo di rappresentanza: una sorta di premio assicurativo che i partiti concedono alle vedove di Stato, il più delle volte il peggiore modo per ingabbiare il dolore e perpetuarlo nei talk show. Non si sa se abbia declinato l’invito o non l’abbia ricevuto, fatto sta che Marisa Grasso, da quando il marito è morto, ha deciso di girare le scuole: le vere primavere dove si può insegnare il tifo onesto e dare un calcio all’Italia da stadio, che infortuna la Costituzione. Ha quindi tenuto conferenze contro quell’Italia da caserma, omofoba, virile, contro lo stesso abuso di potere della polizia: ha passato un po’ della sua bella cipria alla polizia degli Spaccarotella, del manganello facile.
Però essere moglie di un agente che muore è una colpa in questa nazione che muore di calcio e che appunto ha le ossa fragili della legge, una tara di dubbio; e quindi Marisa è stata vilipesa da sottili dardi calunniosi che assurdamente la descrivevano come una vedova discinta – che per Catania è come dare la patente della donna facile – è stata accusata di aver preso i soldi di suo marito e aver comprato una villa in Sardegna come se una casa per una vedova sia un reato e non un rifugio dove rendere stagna una vita divenuta pubblica.
Anche questa è macchina del fango, quella semplice della diceria, della fama “essa riempiva allora di molti discorsi le genti esultando, e cantava ugualmente il certo e l’incerto”, incistare le genti di invidia verso una vedova e farne quasi una fortunata: l’ossimoro della sposa. Nonostante tutto, Marisa è riuscita a far filtrare la sua voce che non è quella delle matrone, ma un sussurrio pudico, pulito e ingenuo, prima attraverso la sua protesta per quella piazza dedicata al marito ma che come ha ben notato è un parcheggio, uno slargo e oggi la sua diffidenza – compensata dalla speranza – nel riaprire il derby ai tifosi.
Ed è davvero uno slargo quella piazza, come è anche un parcheggio questa Catania di falansteri, case che fanno venire l’astigmatismo, che continua a vivere il calcio in maniera brancatiana, che ha sostituito i suoi circoli con i centri scommesse. Il derby riaperto non è assolutamente una prova di maturità, ma è soltanto il vizio della giustizia italiana dell’“attenuante”, dello sconto di pena e della ragion di squadra. Diceva Malaparte che una città deve conservare una macchia di sangue nelle sue piazze come ricordo e ammonimento, una colpa che deve espiare. Le colpe si espiano quando nelle coscienze delle città si instilla la riflessione e in nessun muro ci sia l’inno a perpetuare l’omicidio, o l’offesa ai morti.
Per Marisa Grasso, il calcio non è cambiato ed è ugualmente violento, e forse non è cambiato come la presunzione di un ministro che vuole schedare tutti ma giustifica l’arbitrio del suo capo, non è cambiato anche perché rimane il surrogato alla dialettica della politica: l’intestino della politica. Il posto di questa donna è un seggiolino vuoto come tutti i seggiolini di chi vuole andare allo stadio e non sentire il fischio allo straniero, senza vedere la bestia uscire da ognuno di noi. Soltanto una cosa rimane, quell’amore coniugale di Attilio Bertolucci : la camera s’oscura/l’amore ancora dura/ che le gocce più rade/la finestra più chiara/ i tuoi occhi più neri/ e oggi come ieri/ come domani. Sì, come domani, quando Marisa Grasso stirerà la biancheria e suo figlio nel salotto guarderà la partita, e quando il volume si alzerà, uno dei suoi tanti capelli si colorerà di bianco.
Carmelo Caruso