Lo scorso anno è stato inaugurato in Francia il primo centro di assistenza per genitori vittime di figli violenti, ideato dall’équipe di psichiatri infantili dell’Ospedale Saint-Eloi di Montpellier. Il progetto risponde a un’emergenza sociale: il proliferare di piccoli tiranni che aggrediscono, e non solo verbalmente, mamma e papà. Per prevenire le tragedie domestiche, i medici francesi organizzano psicoterapia di gruppo per le coppie con figli di età tra i 5 e i 17 anni. E’ normale che la notizia susciti un po’ di sorpresa: siamo, purtroppo, solitamente adusi all’incessante cronaca delle violenze perpetrate dagli adulti sui minori, e non si parlerà mai abbastanza contro gli abusi fisici e psichici sulla parte soccombente nel nucleo familiare.
Accade, tuttavia, che i ruoli si invertano e siano i bambini ad assumere il controllo di figure parentali sempre più incapaci di stabilire regole e di punire trasgressioni. La sindrome del “bambino imperatore” è un disturbo del comportamento che induce il piccolo a sfidare i genitori e, se non incontra opposizione, a muovere guerra al resto del mondo, con armi che si risolveranno in un boomerang. Un bimbo cui sono concessi privilegi smisurati, costruisce un rapporto esclusivo ed esigente con i genitori; il nucleo famigliare ruota attorno ai desideri, o meglio, agli ordini, del piccolo despota, al cui comportamento problematico, connotato dall’enorme capacità di asservire gli adulti con tattiche sofisticate di manipolazione emotiva, non si pongono argini.
E quando la famiglia si sgretola? Un fenomeno scaturente dalle mutate relazioni familiari, ben noto ai giuristi, è l’alienazione parentale, quella condizione per cui un figlio rifiuta un genitore dopo il fallimento del matrimonio; e, considerato l’aumento di separazioni e divorzi, si delinea anche una dinamica ricorrente, la cosiddetta triangolazione, che vede l’inclusione del figlio come terzo nel gioco relazionale di una coppia. In una storia di intenso conflitto coniugale, il figlio “triangolato” diventa lo strumento usato nei diversi ruoli di collante, mediatore, controllore, persino giudice, finché non venga indotto a coalizzarsi con un genitore contro l’altro. In questi casi, può succedere che i minori manifestino comportamenti violenti. Un figlio che per anni, per evitare la catastrofe familiare, ha cercato di compiacere i genitori pur dubitando del loro amore nei suoi confronti, o, in caso di abbandono da parte dell’uno, viene investito dall’altro del ruolo rimasto vacante, o, ancora, è chiamato a dare ragione o torto a uno dei due subendo un atroce conflitto di lealtà, può diventare aggressivo verso padri e madri colpevoli di averlo “usato”. Nel vuoto affettivo che non ha contribuito a creare, senza strumenti di difesa se non una modalità immatura di richiamare l’attenzione perché si sente invisibile ad adulti egoisti, vittima del suo stesso rancore, lascia che questo esploda nella violenza.
Educare i figli è difficile anche se la famiglia è unita. Scardinato ormai il concetto di autorità genitoriale, nel momento in cui il figlio prende il sopravvento, il genitore è già perdente nella sfida che conduce al ribaltamento dei ruoli. Se il figlio diviene il padrone della situazione domestica, proprio l’inadeguatezza rispetto a tanto potere lo trasforma nel tiranno che offende, ricatta, manipola, e talora picchia i genitori: quasi sempre le madri, spesso da sole rispetto a padri occupati nel lavoro, consapevoli del problema, ma percepiti come spettatori passivi della scena familiare. Padri distanti che, quando intervengono, lo fanno talvolta in modo sbagliato, rispondendo alla violenza con la violenza, innescando così un processo senza soluzione. Il figlio-padrone, senza nessuno che lo protegga dalla sua stessa aggressività, che esprime un malessere profondo, esercita il suo potere malato in una sfera autoreferenziale. Nel corso della vita, però, non avrà sempre i genitori come controparte: l’egoismo, l’intolleranza della frustrazione e la scarsa attitudine alla socialità saranno il preludio all’emarginazione.
E dire che i primi segnali si manifestano così presto che sarebbe possibile un corretto intervento educativo. Come regola generale, a quattro anni un bambino può già verbalizzare la sua rabbia e a cinque anni essere in grado di controllarla. Se non lo fa, non si dovrebbe sottovalutare il problema. Ma i dati relativi a una condizione infantile frequente, non affrontata nella maniera idonea, che rischia di degenerare in comportamenti aggressivi nell’età adulta, sono allarmanti. Nella maggioranza dei casi non emergono solo problemi educativi, ma disturbi psichiatrici, afferma la psichiatra Nathalie Franc, responsabile del progetto di Montpellier, e si tratta di un quadro clinico sempre più diffuso, specie, al contrario di quanto si potrebbe supporre, nelle famiglie ipercomprensive e attente ai bisogni dei bambini.
Presto il piccolo imperatore si trasforma in un adolescente della now generation. E nell’era in cui tutto cambia velocemente, la tendenza a non saper modulare le richieste e le opinioni, tipica dell’adolescenza, si muta in un’intransigenza verso il mondo adulto e verso la vita stessa. Ecco i figli padroni, dunque; ma padroni di cosa? Introversi e al contempo aggressivi, non raccontano nulla, non rispondono alle domande, non manifestano interesse per la famiglia né per la società, e, come i padri-padroni di un tempo, criticano, gridano, ordinano. Che fare? Tra i consigli su come comportarsi con un figlio difficile campeggia il paradossale “non dategli consigli”. Perché tanto, non li ascolterà. Bisogna attendere che si avvicini per poter aiutarlo. E se non lo facesse? Nessuna risposta sembra valida; alcuni psicoterapeuti (forse senza figli) suggeriscono di usare l’ironia e il sorriso. Ma bisogna vedere se ci si riesce, a ridere.
Tutti i genitori commettono degli errori. Però, diciamolo una buona volta, ci sono anche quelli più sfortunati. Perché gli atteggiamenti ribelli e aggressivi dei figli non sempre dipendono dai genitori, anche se costoro – per di più frastornati dalle critiche di amici e parenti – ne sono il primo bersaglio. La ribellione, peraltro, è uno dei passaggi per affrancarsi dalle figure genitoriali, sostituendo una modalità relazionale a un’altra. E un rapporto violento non significa l’assenza di legame, anzi spesso la violenza si manifesta laddove il bisogno di relazione, pur espresso in forme distruttive, è forte. Di generazione in generazione, perché ciascuno consegna quel che ha ricevuto, nel bene e nel male, si tramandano le forme nelle quali si incanala la convivenza; nelle famiglie tenute insieme da relazioni violente, il problema tende a permanere anche in presenza di tentativi di soluzione, spesso inadeguati perché assecondare il figlio non fa che renderlo più prepotente, mentre lo scontro diretto può avere conseguenze nefaste. Tra dolore e frustrazione, rimane l’insoluto quesito. Dove ho sbagliato?
L’adolescenza è una fase della vita nella quale si è arrabbiati “a prescindere”, e questo in sé non è un male: una sana rabbia dovrebbe preludere allo sviluppo del pensiero critico, quello, per intenderci, del quale abbiamo derubato le nuove generazioni, appiattite su schermi di varie dimensioni. Ma ogni potere senza controllo diventa arbitrio: e una rabbia senza autocontrollo diventa patologica e pericolosa. Essere “contro” forma la personalità: ci siamo scontrati con il papà, con il professore, con il preside, con la parte politica avversa, con il rivale in amore, e, forse senza diventare gli splendidi quarantenni di morettina memoria, siamo cresciuti come persone e come cittadini. Ma cosa sta succedendo oggi? E cosa succederà ancora, se il confronto che offriamo non è reale, nella generale sconfitta per abbandono del campo che vede anzitutto i genitori, ma anche la scuola, le istituzioni, lo stesso sistema della convivenza civile annebbiarsi nel progressivo scivolamento verso un’esistenza gestita virtualmente? Certo, riappropriarsi di un rapporto autentico è faticoso, ma forse è l’ultima spiaggia, la sola cura.
Il figlio-padrone, con l’aria di sfida che cela fobie e fragilità, al quale in casa non strappi un sorriso, che critica con ferocia, che dopo due parole trascende nell’urlo, fa paura e pena. Naturalmente bisogna distinguere, e farsi aiutare se non si possiedono gli strumenti per farlo, tra autentiche patologie e situazioni determinate solo da una cattiva educazione. Dato che di solito la tirannia infantile si esercita nella sfera familiare, chi sta al di fuori non si accorge di nulla. Il paradosso è “aiutare a chiedere aiuto”, sostiene ancora la dottoressa Franc, il cui principale obiettivo è ridare autostima e fiducia ai genitori. Eppure, dell’escalation di violenza da parte dei minori in seno alla famiglia si parla poco, ed è facile capire perché. I genitori vogliono evitare ai figli di avere precocemente a che fare con la giustizia e nascondono gli episodi violenti, a meno che non sfocino in tragedie non occultabili. Si tende a proteggere il minorenne perché il peso delle sue azioni non lo danneggi in futuro, per non farlo apparire “sbagliato” e, infine, per sottrarsi al giudizio della collettività, in forza del vecchio adagio che i panni sporchi vanno lavati in famiglia. Ci si preclude così la possibilità di aiuto dall’esterno, la solidarietà di chi condivide il problema o, comunque, lo comprende, e lo specifico sostegno degli specialisti.
Mai come in questi casi il silenzio non è d’oro; una storia personale può essere identica alle storie di altri dalle quali trarre il conforto del confronto; tenerla in ombra non eviterà che emerga all’improvviso per obbligarci a reinterpretare, oltre alle relazioni con i familiari, la nostra stessa esistenza. Le negatività che ci accompagnano lungo il cammino della vita, principalmente il vissuto famigliare, pur quando non affiorino in modo esplicito, creano inquietudine, sensi di colpa o di vergogna, ed è difficile, in mancanza dell’ammissione di un problema, affrontarne il peso e risolverlo. I segreti di famiglia, svelati, possono determinare il ribaltamento dell’immagine sociale; ma per quanto si può ignorare la realtà? Affrontare un vissuto che, in quanto inespresso, resta incluso in una capsula d’insolvibile dolore, permetterà di far fluire nei normali canali dell’esperienza anche la momentanea sconfitta, fino a trasformarla in un arricchimento personale che può essere trasmesso ad altri: in particolare, proprio ai figli, i primi ad assorbire gli effetti delle ferite mai sanate dei genitori. Un meccanismo che la psicanalista Alice Miller ha spiegato, evidenziando come a livello inconsapevole un genitore comunichi al figlio le proprie paure, l’attesa di una disgrazia, i buchi neri del passato; di converso, quindi, può trasmettere anche il superamento delle proprie angosce.
Ogni snodo significativo, in una situazione di stallo, richiede un diverso tipo di approccio a una questione irrisolta; rompere il silenzio, grazie alla forza esplicativa di ogni racconto, può essere l’inizio di una nuova storia, nella quale il narratore non sia, infine, sempre qualcun altro.