PALERMO – Condanne pesantemente ridotte, due assoluzioni e niente aggravante mafiosa. La Corte d’appello ribalta il verdetto di primo grado al processo sulla presunta estorsione subita dal titolare del bar del Tribunale di Palermo. Benedetto Marciante è stato condannato a 4 anni (ne aveva avuti dieci), due anni per intestazione fittizia di beni a Gianfranco Cutrera (gli erano stati inflitti tre anni e mezzo). I difensori erano gli avvocati Raffaele Bonsignore e Vincenzo Giambruno. Assolti Francesco e Michele Lo Valvo, padre e figlio: per loro in primo grado la pena era stata di sei anni ciascuno. Erano difesi dagli avvocati Rosario Vento e Salvino Mondello.
Fu un caso eclatante quello scoperto nel 2012. Marciante, legato al clan di Resuttana, fu arrestato in flagranza di reato, dissero gli investigatori, mentre intascava la seconda tranche del pizzo: 18 mila euro in contanti. Neppure il fatto che il bar si trovasse all’interno del Tribunale lo avrebbe fatto desistere. Un video immortalò la consegna dei soldi avvenuta in un capannone di via Cervantes.
Francesco e Michele Lo Valvo, invece, sono parenti del commerciante. Sarebbero stati i mediatori dell’estorsione. Coloro che sarebbero intervenuti per fare ottenere uno sconto all’imprenditore. Una ricostruzione che i Lo Valvo hanno sempre respinto. Ora i giudici d’appello hanno dato loro ragione.
“È una sentenza sconfortante per chi ha creduto nella giustizia e da essa è stato deluso. La caduta dell’aggravante dell’articolo 7 – spiega il legale di parte civile, Stefano Giordano – rende questa sentenza ictu oculi impugnabile per violazione di legge innanzi alla Corte di Cassazione, e soprattutto rende vano quasi completamente gli sforzi delle forze dell’ordine e dei magistrati inquirenti che avevano effettuato un lavoro molto analitico nei confronti degli imputati, e che oggi vedono frustrato – conclude l’avvocato – il loro impegno per effetto di una sentenza ingiusta. Una volta depositate le motivazioni della sentenza le analizzeremo e vedremo che margini ci sono per impugnarla in Cassazione”.