PALERMO – “La mafia tiene sotto scacco il quartiere Zen”, dissero gli investigatori. Di avviso opposto è stato il giudice. L’accusa di associazione mafiosa e l’aggravante prevista per chi dà un contributo a Cosa nostra è caduta davanti al giudice per l’udienza preliminare Giovanni Francolini.
Sotto processo c’erano una sfilza di imputati arrestati nel febbraio 2013. Alla fine hanno retto solo le ipotesi di violenza privata, violazione di domicilio e occupazione abusiva di alcuni immobili dello Zen. I condannati sono Salvatore Vitale (4 anni e 4 mesi), Angela Spina (4 anni e 4 mesi), Antonino Spina (4 anni e 4 mesi), Francesco Firenze (3 anni e 8 mesi), Francesco Nappa (3 anni), Giuseppe Nappa (3 anni). Anche per loro, però, sono caduti diversi capi di imputazione. E le condanne sono diventate molto più miti di quelle chieste dai pubblici ministeri.
Escono dal processo con un’assoluzione piena Letterio Maranzano, Antonino Pirrotta, Giuseppe Covello, Giovanni Di Girolamo, Michele Moceo, Rosario Sgarlata, Giovanni Ferrara, Franco e Domenico Mazzè, Salvatore Spina e Antonino Maranzano. Erano difesi, tra gli altri, dagli avvocati Claudio Gallina Montana, Angelo Formuso, Tommaso De Lisi, Antonio Turrisi, Stefano Cultrera; Marco, Giulia e Valentina Clementi, Raffaele Bonsignore e Maurilio Panci. Furono questi ultimi, per primi, con le indagini difensive a fare venire a galla la “falsità delle dichiarazioni dei pentiti” e a ottenere la scarcerazione degli indagati.
Non sono bastate per arrivare ad una condanna le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. “I casi popolari su nuostre (le case popolari sono nostre)”, mise a verbale Salvatore Giordano.
Quella che è emersa, dunque, sarebbe una storia di miseria e sopraffazione piuttosto che di mafia. La storia di gente costretta a pagare per continuare a ricevere luce e acqua o per evitare che la propria casa venisse “ceduta” ad altri. Una sorta di controllo parallelo e illegale della vita tra i padiglioni dello Zen che, però, nulla avrebbe a che vedere con la mafia.
Almeno non nel caso dell’inchiesta sfociata negli arresti del febbraio 2013. Perché nuovi blitz successivi, l’ultimo è di poche settimane fa, avrebbero azzerato i vertici della famiglia mafiosa che detterebbe legge nel quartiere periferico della città e controllerebbe lo spaccio di droga e il mercato delle estorsioni.