PALERMO – “In nome del popolo italiano, la Corte di assise assolve…“. Sono le 2:45 di notte quando il presidente della prima sezione Vincenzo Terranova legge il verdetto dopo quasi quindici ore di camera di consiglio. Onofrio Lipari non è colpevole dell’omicidio boss Giuseppe Di Giacomo.
Assolto per non avere commesso il fatto dall’omicidio, condannato a 5 anni e mezzo per avere tenuto un cellulare in carcere. Tra le telefonate contestate anche quella in cui minacciava la moglie perché non aveva impedito alla figlia di fare un tatuaggio. Il collegio ha ritento che non ci fosse aggravante mafiosa, senza la quale serviva la querela della parte offesa per procedere.
Il detenuto ascolta il verdetto dal gabbiotto. In aula ci sono i parenti, esultano. La madre sviene.
L’omicidio Di Giacomo nel 2014
Si chiude con l’assoluzione il processo sull’omicidio del boss di Palermo Centro, nel 2014 alla Zisa. L’arresto avvenne 9 anni anni dopo. Lipari stava scontando una condanna per mafia e fu raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare. In carcere rischiava di restarci per sempre. La Procura aveva chiesto l’ergastolo.
Secondo un’ipotesi, mai giunta in dibattimento perché non riscontrata, sarebbe stato il capomafia di Porta Nuova, Tommaso Lo Presti, soprannominato il pacchione, a ordinare l’omicidio per i forti contrasti con Di Giacomo. A premere il grilletto sarebbe stato Lipari, tradendo Di Giacomo che considerava il suo secondo padre.
L’imputato ha sempre respinto l’accusa. Nel corso di dichiarazioni spontanee non negò di essere un mafioso, per altro circostanza confermata da una sentenza definitiva (nel blitz dei 181 dei mesi scorsi gli viene contestato di avere ricevuto dalla famiglia mafiosa il mantenimento in carcere che spetta ai boss), ma per nessuna ragione al mondo avrebbe ucciso Di Giacomo.
I fratelli Di Giacomo intercettati
Marcello e Giovanni Di Giacomo, fratelli della vittima, durante un colloquio in carcere (Giovanni Di Giacomo sta scontando l’ergastolo, ndr) puntavano il dito contro Lipari. Avevano pronto un piano, ma un blitz fermò la vendetta.
Perché i fratelli Di Giacomo avrebbero dovuto accusarlo se davvero è innocente? Lipari ha fornito una spiegazione. Marcello Di Giacomo sarebbe “un personaggio strano di testa”, tanto che la stessa vittima aveva deciso di “non farlo immischiare, doveva rimanere fuori da tutte le cose”. “Cose” di mafia.
Sempre Marcello Di Giacomo individuò nella gestione del “pannello” delle scommesse clandestine la causa scatenante del conflitto e dunque dell’omicidio. Lipari avrebbe voluto togliere la gestione alla vittima per poi vendere il panello a qualcuno altro.
“Non ero un bravo ragazzo, ma…”
“Non è che ero un bravo ragazzo, uno studente universitario. Non posso dire una bugia, ma io questo reato (l’omicidio ndr) non l’ho fatto. Sono in carcere da innocente e voi lo sapete bene”, disse l’imputato rispendendo alle domande degli avvocati Angelo Formuso, Michele Giovinco, Vincenzo Nico D’Ascola.
I legali hanno contestato alcuni punti chiave della ricostruzione della Procura. Ad esempio la tempistica del delitto incompatibile con la presenza di Lipari in una stradina dove fu intercettato e dove non avrebbe avuto il tempo di arrivare dopo il delitto (un alibi di 21 secondi), e la direzione di fuga del killer che sparò a Di Giacomo arrivando in sella ad uno scooter.
Il figlio della vittima: “Non è stato Lipari”
La vittima era a bordo di una Smart assieme al figlio di otto anni. Dieci anni dopo, quando ormai era maggiorenne, il ragazzo è stato sentito in aula. Disse che mai, neppure per un secondo, ha creduto che l’assassino del padre fosse Lipari a cui mandò un bacio uscendo all’aula. Daniele Di Giacomo è fidanzato con la nipote del presunto assassino. Il padre, la madre e il fratello di Lipari sono stati intercettati mentre parlavano della loro relazione. “E vabbè e se si vogliono bene, che fa che se ne scappano?… che meglio è?”.
C’erano poi due capi di imputazione oltre all’omicidio. Lipari andò su tutte le furie quando seppe che la figlia si era tatuata. Se la prese con la moglie che non glielo aveva impedito. “Appena esco ve ne andate perché vi ammazzo a tutti, proprio il tatuaggio non lo doveva fare“, urlava al cellulare che aveva a disposizione in carcere. Il mafioso ha usato tre telefonini nei penitenziari di Larino e Frosinone dove stava scontando una condanna per mafia. Per questo reato dovrà scontare cinque anni e mezzo di carcere.

