È morto il dottore Giuseppe Palazzotto, aveva ottantacinque anni ed era un uomo lieve e buono. Te ne rendevi conto quando lo scorgevi in transito, perché aveva il passo speciale di uno che cammina a qualche centimetro da terra, sfidando il peso delle paure e della gravità. E ti veniva quasi di fargli l’inchino, per un certo portamento aristocratico, dissimulato dall’ironia ragazzina degli occhi.
Ma quella di Pino – come lo chiamano gli amici – non era la leggerezza superficiale degli inconsapevoli, né avrebbe potuto esserla nel cuore di chi era stato direttore per una trentina d’anni di un reparto di oncologia, il ‘Maurizio Ascoli’ dell’ospedale Civico, insieme a tante altre cose. Era, semmai, la profondità luminosa e senza rancori di chi arriva in fondo al pozzo del dolore altrui e, inaspettatamente, oppure cercandola, trova la sorgente dell’acqua della vita. Così decide di non sotterrarla mai più. Ci vuole il talento di riconoscerla, ma pure la fede per tentare. E con la fede ci vuole quel po’ di disincanto che serve a vivere meglio, a restare liberi, senza essere posseduti da niente o da nessuno. Era un buono e non te lo faceva pesare, Giuseppe, lieve in tutto, preciso in tutto: come nella scelta della compagna di viaggio.
Scrivere della morte di Pino Palazzotto porta a suo figlio Gery, amico di tanti che gli vogliono bene, compreso chi scrive. Essendo Gery Palazzotto un magnifico scrittore, ha già le parole di suo, perfino per questo momento: perché non è mai vero che non ci sono parole. Ci sono, per fortuna, e sempre. Allora come glielo diciamo che gli vogliamo bene e che stiamo soffrendo con lui? Con un abbraccio, il tipico prodotto di umanità reciproca perfettamente in voga, sebbene in tempo di pandemia. Un abbraccio basta pensarlo ed è già recapitato.
Comunque Gery le parole le aveva già trovate in occasione un compleanno di cinque anni fa, come ci ricorda il suo profilo Facebook: “Il mio papà ha ottant’anni e ha più energie di me. Il mio papà voleva un altro futuro lavorativo per me, ma poi ha capito che era inutile insistere. La rassegnazione a volte è una virtù. Il mio papà non è stato immune da errori e mi ha insegnato che quando si sbaglia, la retromarcia non è obbligatoria, si può anche scartare di lato e accelerare (…)”.
Un figlio scrittore, in fondo, non è mai da buttare via. E ci sono padri che somigliano a libri indimenticabili, riposti nello scaffale in eterno. Possono forse morire, i libri?