Sguardi e canzoni prima della fine | Le parole rubate a Giovanni e Paolo - Live Sicilia

Sguardi e canzoni prima della fine | Le parole rubate a Giovanni e Paolo

Non la solita retorica. Al Teatro Massimo, il 23 maggio, va in scena la memoria.

Questi sono i tempi in cui i lineamenti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vengono sottratti alla dissolvenza, nel ricorrere delle stragi del ’92. Riemergono, mentre fiorisce la tenerezza degli aneddoti.

Falcone, il suo carattere brusco, ma la dolcezza che lo legava alla sua sposa, Francesca Morvillo, morta con lui sull’autostrada. Borsellino, le sigarette multiple, le barzellette in ascensore, con chi scelse di custodirlo fino all’ultimo respiro, le passeggiate solitarie e clandestine sotto casa, nell’ebbrezza di un istante di libertà.

Coloro che non hanno smesso di amare le toghe e gli uomini che le indossavano, che non dimenticano uno solo dei nomi dei ragazzi della scorta, né la linea spezzata del cuore di tutti, si fermano qui, sull’orlo delle loro consapevoli lacrime. Altri gonfiano la sacralità pubblica e l’intimità privata col sovrappeso della retorica. Allora, forse, c’è più bisogno di sottrazione, di un racconto scarno, di qualcosa che drappeggi la forma di un’assenza.

‘Le parole rubate’. Così si intitola l’opera che il Teatro Massimo prevede in cartellone per il prossimo 23 maggio. L’hanno scritta, a quattro mani, i giornalisti Gery Palazzotto e Salvo Palazzolo. La musica di Marco Betta sarà eseguita da una formazione di trenta professori d’orchestra, diretta da Yoichi Sugiyama. La regia è Giorgio Barberio Corsetti. L’interprete in scena è Ennio Fantastichini.

Gery Palazzotto chiacchiera ora con LiveSicilia, per accennare al contesto.

“Cosa sono le parole rubate? – dice -. Quelle che non ci sono, che non abbiamo mai ascoltato e di cui sentiamo la nostalgia. E’ il sostanziale elemento della perdita che spesso rimuoviamo, perché la sublimiamo con il rumore. Io ci ho messo la drammaturgia. Salvo Palazzolo il rigore del cronista. Insieme, raccontiamo, soprattutto, i cinquantasette giorni tra Capaci e via D’Amelio. Li filtriamo con una luce differente, offrendo un nuovo punto di vista. C’è un narratore, sul palco, a riannodare i fili spezzati. E c’è una domanda lancinante che fa da contrappunto al testo e che ne rappresenta l’architrave: come è stato possibile che sia accaduto? Vogliamo comunicare lo stupore irrisolto di una catastrofe. In fondo, non siamo mai usciti dal cratere scavato dalle stragi, anche se non ce ne rendiamo conto”.

Parole rubate. La cronaca di uno strappo che ci rende, da spettatori, da siciliani, più conformi alla natura tragica degli eventi, che ci permette di prendere contatto con il nostro stesso silenzio. Sullo sfondo, la filigrana dei minuti trascorsi tra un tributo di sangue e l’altro. Le immagini, i volti smarriti dei sopravvissuti. Lo sguardo teso di Paolo Borsellino – lui che possedeva un’anima tappezzata di ironia in grado di coltivare la levità dello spirito – nel presagio della fine. Le carezze negate ai figli, per l’estraniamento che precedeva il martirio ed era, già di per sé, un martirio. Ancora un viaggio in ascensore, ma, stavolta, niente barzellette. Una frase sussurrata, come un soffio, ai suoi angeli con la pistola: “Mi spiace tanto, perché, quando accadrà, ci sarete pure voi”. Il bagno a mare. Una domenica di sole a Palermo, in via D’Amelio.

“Abbiamo incontrato i parenti delle vittime – racconta Gery –. Abbiamo parlato con madri che hanno visto aumentare i capelli bianchi, mentre quelli dei figli saranno eternamente neri. Abbiamo incrociato figli che, adesso, hanno la stessa età dei padri assassinati. Siamo entrati nei locali che Giovanni Paparcuri, storico collaboratore di Chinnici e poi di Falcone, ha costituito a Palazzo di giustizia, rimettendo insieme la stanza di Falcone e Borsellino, con i loro pc, con le loro cose. Un passaggio essenziale per scrivere, perché siamo stati travolti da un profondo sentimento di mutilazione e di riconoscenza. Un’emozione condivisa da chi ha lavorato al progetto”.

Laggiù, in un cassetto di quella stanza, c’è un biglietto d’amore tolto alla polvere. Una grafia femminile e raddolcita. Una dedica di Francesca Morvillo al suo sposo, Giovanni.

C’erano state serenate in spiaggia, prima del 23 maggio. Giovanni Falcone, alla chitarra, cantava canzoni stonate, però, cantava. Un bacio affettuoso sulla guancia di una nipotina, in una foto d’epoca. Un’altra foto che ha conservato un tuffo in piscina. L’album di famiglia di Paolo Borsellino. Un albero di Natale. Le corna, affettuose, di un padre sulla testa di suo figlio, Manfredi. Le corse in motorino. La vacanza in Tunisia. L’occhiolino all’autista in macchina e l’accensione della sigaretta finale, in quel torrido 19 luglio.

“Come termina la storia sul palco? Non posso anticiparlo – conclude Gery Palazzotto – ma è un finale sulla ricerca, sull’attesa. Abbiamo costruito un’inchiesta complessiva, non solo giudiziaria, con una visione diversa, partendo proprio dall’assenza. A venticinque anni di distanza in un teatro d’opera si ricostruisce il più grande cambio di scena a sipario aperto che la nostra democrazia ricordi. Questo è il senso di ciò che abbiamo tentato di fare”. Il senso di una vicenda collettiva e intima, con lacerazioni di cui nessuno ha mai calcolato, con precisione, la profondità. Perché tutto fu rubato. Non solo a parole.

La foto di copertina ritrae Giovanni Falcone e Francesca Morvillo con una nipotina. All’interno, Paolo Borsellino abbraccia una delle figlie.


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