Amara è la strada del potere, perché conduce alla solitudine. E chi la percorre ne consuma i piaceri con il supplizio. Tutta una vita attanagliato dai dubbi: stanno con me perché mi vogliono bene o perché gli sono utile? Ed è la caduta finale che, sovente, svela l’inganno. Non c’è spettacolo più malinconico del tramonto dei potenti. Quando l’ombra si allunga. Quando, in un momento di verità supremo, restano, purtroppo o per fortuna, finalmente da soli. Alle volte, è sufficiente il sospetto.
Prendiamo Leoluca Orlando, sindaco di Palermo, che ha sempre saputo come la politica sia lotta metaforica all’ultima coltellata: tuttavia, possedeva scenari sontuosi e abracadabra altisonanti che coprivano la nudità del contesto. Adesso, invece, la sceneggiatura è compromessa nella contesa tra nomine di sottogoverno, note al veleno, calci negli stinchi, con una maggioranza rissosa e in crisi, come stiamo raccontando. Sullo sfondo, una città che va alla deriva. Nell’aria, appunto, si respira il dramma del declino di un regno, con una platea che si prepara a voltare pagina, mentre il trono, per ragioni anagrafiche e temporali, vacilla perfino in anticipo.
Prendiamo Nello Musumeci, presidente della Regione, che sta sperimentando quanto sia labile l’alchimia delle alleanze, però forse anche lui lo sapeva già. In principio, la tragica la vicenda del Covid, unità di misura attuale delle carriere – e ciò non dipende dagli interpreti – fu politicamente contenuta in percentuali e in scelte che connotarono la Sicilia per una opportuna prudenza.
Irruppe la cronaca: il pasticcio dei numeri, l’inchiesta che ha richiesto le dimissioni del prediletto assessore Razza, la scomoda posizione di un interim alla Sanità, cioè sulla poltrona che è il bersaglio degli improperi e delle aspettative. I compagni di processione che, nonostante le pacche sulle spalle, cominciano verosimilmente a farsi quattro conti in prospettiva futura. Oltretutto, Rosario Crocetta, come alibi, non funziona più.
E certo che sono diversissimi, Luca e Nello, giova ripeterlo, eppure hanno in comune una appartenenza che nessuno dei due può disconoscere nel rivelarsi contemporanei di un mondo in cui la politica si faceva con il corpo non con la rarefazione della virtualità. Con la voce e con gli sguardi, con le scarpe e con il sudore, non con il profilo social. Nell’assonanza dei superstiti, pur essendo fieri avversari e pur adattandosi all’oroscopo del giorno, sono costretti a combattere fianco fianco contro i successori. Ma il potere logora, prima o poi.
Intanto, ne osserviamo – così sembra – un duplice declinare sotto l’assedio degli eventi. Nel primo caso, quello di Orlando, sospinto dalle lancette dell’orologio politico. Nel secondo, quello di Musumeci, forse anticipato dalle vicende in corso, ma sarebbe prematuro darlo per inesorabile.
E non ci saranno rimpianti, semmai una conferma della caducità di tutto, in quella dimensione che è stata scelta, subita e corteggiata, fino alla fine. Questo è il racconto di una doppia solitudine, con i suoi cinismi, le sue storture, i suoi tentativi di operare comunque, le sue ascensioni che si trasformano in discese. Né si può dire con certezza a chi spetti il ruolo di colui che, infine, ha deluso. Da una parte c’è sempre il politico, facilissimo traguardo di ogni sasso polemicamente scagliato. Ma dall’altra c’è, immancabilmente, il popolo.