C’è un negozio che è diventato una sacrestia di malinconie, una chiesetta per celebrare il rimpianto. Ha chiuso i battenti con grande fragore. E’ la crisi, allargano le braccia coloro che sanno. Ma alcuni ex dipendenti non si rassegnano. Si ritrovano lì, a minuti scaglioni. E fissano la porta sigillata. La vita che, forse in momenti aguzzi, hanno considerato insopportabile è rimasta prigioniera, incatenata alle ombre. I corpi sono stati liberati. L’operosità e il senso vagano nel Purgatorio degli scaffali vuoti, delle tele di ragno, della polvere. Chi ha dovuto infagottare le lacrime e andarsene non ha lasciato soltanto uno stipendio. Ha appeso l’anima a una corda nascosta tra le mercanzie di un tempo. E non la ritrova.
Il brutale distacco da un’attività – con qualsiasi grama garanzia – non provoca più l’esclusiva perdita dalla sicurezza del reddito. Nell’era dell’homo lavorativus, tutto quello che facciamo nel segno della produzione comprende l’epica della passione e la saggezza del significato. Se la macchina ti sputa fuori, sei come un bimbo sperduto senza la mappa dell’isola che non c’è. Non mendicherai un salario. Supplicherai in ginocchio la carità di una fatica da bestia che ti spossava e ti consegnava, nelle sere di rianimazione televisiva, una strana contentezza in corpo. E’ trapassata l’era romantica del lavoro in ossequio alla persona e ai suoi diritti costituzionali. Si è capovolta la prospettiva. La fragilità si lascia addentare dalla bocca vorace del risultato. O dentro, nella pazzia di un isocrono e instancabile rito collettivo. O fuori, nella schizofrenia della navigazione incerta e solitaria. Ecco perché gli ex presidiano il mito che un giorno gli appartenne. Tutto, proprio tutto, non gli hanno tolto, se sopravvive una sorta di tenerezza canina: il bisogno di marcare il territorio con i pezzetti di cuore ancora disponibili.
Hanno fatto un deserto. E la chiamano Palermo. Una desolazione di saracinesche calate. Da lì, da luoghi che furono celebri casematte del commercio, sciamano figurine ricurve di impiegati amorevoli e specializzati, sulla soglia dei cinquant’anni. Sanno che non avranno altra collocazione, perché il mercato inghiotte ragazzini alle prime armi di modestissime pretese. Dovranno percorrere un sentiero impervio, alla ricerca di sicurezze che nessuno può dare. Nessuno, davvero, conosce l’indirizzo della soluzione. Busseranno disperati, quelli che vagano. Picchieranno le nocche sulle finestre dei politici. E non avranno risposte. Questa politica non dispone di menzogne all’altezza della terribile verità. Ha perso per paradosso la sua capacità suprema: l’arte di abbindolare il dolore. Si mostra talmente surreale e dura la condizione presente, da non potere essere mai scavalcata, neanche dal naso lungo di un onorevole.
E siccome in ogni deserto è necessaria la luce studiata di una cattedrale adatta alle nuove religioni, ecco il nuovo mega-centro dello Zen. Il discorso riguarda fino a un certo lembo l’economia. Si coglieranno alla scadenza debita, in un contesto statisticamente apprezzabile, le ricadute sui negozietti che lottano come vietnamiti nella giungla. Qui raccontiamo ciò che ci colpisce a primo contatto oculare. L’imponenza di una costruzione nell’abisso. Le bandiere che garriscono sul nulla. C’è una relazione tra la morte di una città e l’edificazione di un monumento mastodontico in sospetto di catafalco e sudario? La questione si rivela intrisa di misticismo. I centri commerciali non sono posti in cui qualcuno vende e qualcuno compra. Non offrono articoli di vario pretesto. Comminano quarti d’ora di gioiosa ricreazione, specialmente nell’ora peggiore. Sono parrocchia e oratorio. Danno il riflesso di un’opulenza che non c’è. Consolano la sofferenza del lager, sciolgono il nodo della sua bruttezza.
Le esistenze si sbriciolano, sostituite dalle cose. Ma noi possiamo sfiorare la carta ruvida di un uovo di Pasqua, con devota reverenza, e confidare nell’ultima speranza. La resurrezione della sorpresina.

