PALERMO – Trentadue anni di silenzio. La dichiarazione di morte presunta, che i familiari di Giovanni Paolo Garofalo chiedono al Tribunale, non segnerà la fine del limbo di dolore, ma – come spiega l’avvocato Giuseppe Di Stefano – “serve per chiudere alcune incombenze burocratiche”.
La burocrazia, con cui ci si deve confrontare anche per un caso di lupara bianca. Era il 1990 quando Francesco Paolo Garofalo, considerato un contrabbandiere di sigarette e trafficante di droga, scomparve nel nulla. Il suo corpo non è stato più ritrovato.
Una decina di anni fa la Procura di Palermo ipotizzò che l’autore del delitto fosse Francesco Paolo Alfano, capomafia del quartiere Noce ed ergastolano. Uno che comandava già negli anni Ottanta. Garofalo avrebbe osato mettere in giro la voce che il boss avesse fatto da palo ad un gruppo di ladruncoli autori di un furto in appartamento. Un’offesa che Alfano avrebbe lavato con il sangue.
L’accusa si basava su alcune vecchie dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Non sono stati trovati i necessari riscontri e Alfano fu assolto. Il delitto Garofalo è rimasto irrisolto, e probabilmente sarà così per sempre.
Nel frattempo i familiari hanno chiesto al Tribunale di pronunciare sentenza di morte presunta. Se nessuno si farà avanti, leggendo anche questo articolo, la morte diverrà accertata.
Altrimenti il caso resterà confinato nel limbo, del dolore e dei delitti impuniti. Ci sono tanti morti senza nome nella storia della Sicilia che inghiotte i suoi figli. Nel 2016, in una grotta a Roccamena, nel palermitano, furono trovati i resti di quattordici cadaveri: undici uomini adulti e due bambini. Sono state eseguite diverse comparazioni con il Dna dei parenti di persone scomparse. Tutti hanno dato esito negativo.
L’esame al carbonio 14 ha consentito di datare le ossa. Risalgono quasi tutte agli anni ’30 e ’40, ma ci sono dei resti risalenti agli anni ’70. Potrebbe dunque trattarsi di persone morte durante la seconda guerra mondiale a cui si sarebbero aggiunte vittime di lupara bianca.
Giovanni Falcone diceva di essersi occupato di mille omicidi, per la metà senza che si fossero mai trovati i cadaveri. Un anno e mezzo fa i resti di due persone con accanto una corda e un cubo di cemento furono trovati in fondo alla diga Garcia, che oggi porta il nome di Mario Francese, il cronista giudiziario del Giornale di Sicilia ucciso dalla mafia. Si pensò che i resti appartenessero agli imprenditori Antonio e Stefano Maiorana, non non è così. Il giallo dell’identità resta.
Così come resta il mistero dei resti umani trovati in una grotta lavica alle pendici dell’Etna. C’erano anche un cappello, un orologio, un maglione e una pagina de “La Sicilia” del 15 dicembre 1979. Data che allontanerebbe la possibilità che si tratti del cadavere di Mauro De Mauro, cronista de L’Ora scomparso nel nulla nel 1970. Una ipotesi tendenzialmente esclusa, ma si attendono ancora gli esiti degli esami disposti dalla magistratura.
Una cosa è certa: la figlia di De Mauro, che ha chiesto di valutare la possibilità che si trattasse del corpo del padre, non ha ricevuto alcuna comunicazione. I familiari restano in attesa, in un limbo di dolore che accomuna i morti ammazzati per appartenenza mafiosa e chi dalla mafia è stato ucciso perché la combatteva o dava fastidio.
Oppure per avere visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Come i ragazzini di Casteldaccia, Salvatore e Mariano, di cui non si hanno notizie da tre decenni. L’inchiesta è stata archiviata. Nel limbo del dolore la giustizia è spesso impossibile.

