Palermo, punito dalla mafia: omicidio Fragalà, condanne definitive

Punito dalla mafia: omicidio Fragalà, condanne definitive

Il verdetto sull'omicidio del penalista, barbaramente picchiato a morte

PALERMO – Ricorsi della difesa rigettati. Diventa definitiva la sentenza al processo sull’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà, pestato a morte sotto il suo studio, a pochi passi dal Palazzo di giustizia di Palermo. Fragalà si spense in ospedale il 26 febbraio del 2010 dopo tre giorni di agonia.

I condannati sono Antonino Abbate (30 anni), Francesco Arcuri (24 anni), Salvatore Ingrassia (22 anni) e Antonio Siragusa (14 anni).

Assolti Paolo Cocco e Francesco Castronovo. Erano difesi dagli avvocati Edi Gioè, Rosanna Vella e Debora Speciale. Manca comunque il tassello dei mandanti. O meglio, se davvero c’è stato, dell’ulteriore livello mafioso da cui arrivò l’ordine per il pestaggio mortale del penalista. Un tema su cui è tornata Marzia Fragalà, figlia della vittima e avvocato.

In primo grado la Procura aveva creduto alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Chiarello, bollando come inattendibili quelle di Siragusa, intervenute successivamente. In appello l’accusa aveva cambiato idea: Siragusa aveva ragione.

Solo che quest’ultimo aveva scagionato Cocco e Castronovo, chiamati in causa da Chiarello: nel loro caso, secondo l’accusa, ci sarebbero stati elementi diversi e in aggiunta alle dichiarazioni. Ed invece la Suprema Corte ha confermato l’assoluzione.

Il movente dell’omicidio è stato rintracciato nell’attività professionale del noto penalista palermitano: “Intento precipuo dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra era quello di impartire una punizione al professionista, ‘reo’ di aver assunto in procedimenti penali per reati di mafia posizioni non conformi agli interessi del sodalizio e per ciò appellato quale ‘sbirro’”.

Fragalà era considerato un avvocato “sbirro” perché difendendo al meglio i suoi assistiti finiva per danneggiare gli interessi di Cosa Nostra. La sua punizione doveva suonare come un avvertimento per l’intera avvocatura palermitana.

La pista mafiosa è stata presente fin dall’inizio delle indagini e affondava le radici nel popolare rione del Borgo Vecchio, mandamento mafioso di Porta Nuova. Ne parlava già Francesco Chiarello, il cui racconto però è crollato nella sua attendibilità. Poi sono arrivate le dichiarazione di Antonino Siragusa, accolte in primo grado e anche in appello.

Siragusa si autoaccusò di avere chiamato lo studio Fragalà per verificare i movimenti dell’avvocato. Era stato lui ad accompagnare con la sua Smart Abbate in via Turrisi. Questi indossò il casco e bastonò la vittima.

Il giorno che ricevette l’incarico di pestare il penalista con un grosso legno Siragusa vide Abbate appartarsi con Francesco Arcuri davanti a un’agenzia di scommesse nella zona del Borgo Vecchio. Arrivò l’ordine: “Si può fare”.

Siragusa ricordò di avere chiesto ad Abbate “perché dovevamo andarci noi e non potevamo mandare qualcuno. Lui rispose che doveva farlo personalmente perché ‘Fragalà invece di fare l’avvocato, faceva il carabiniere’”.

Arcuri, dunque, fu il mandante, tirato in ballo da Siragusa (anche se solo in un secondo momento) che disse di avere partecipato in prima persona al pestaggio.

Fragalà assisteva Salvatore Fiumefreddo e Vincenzo Marchese, considerati prestanome di Rotolo. Durante l’arringa difensiva – avvenuta quattro giorni prima dell’agguato – Fragalà citò la lettera che Antonietta Sansone (moglie di Rotolo) scrisse a Marchese per scusarsi del suo coinvolgimento nelle vicende giudiziarie.

E così scattò la punizione. Si mossero gli uomini di Porta Nuova che finirono per fare un favore anche ai rotoliani. C’era un profondo legame fra i due clan. Basti pensare che Arcuri era grande amico di Gianni Nicchi, figlioccio di Nino Rotolò. La sera prima dell’arresto del latitante nel covo di via Juvara, a due passi dal palazzo di Giustizia di Palermo, i due se n’erano andati in giro per la città, di pub in pub, in sella ad una motocicletta.

La punizione diventò un massacro, vista la ferocia con cui furono inferti i colpi di bastone.

L’omicidio di Enzo Fragalà “fu una vera e propria esecuzione, un’azione studiata e scientificamente posta in essere”. Così ha detto l’avvocato Enrico Sanseverino, uno dei legali di parte civile della famiglia Fragalà.

“Siamo qui, in quest’aula della Suprema Corte, per discutere dell’omicidio di un uomo in toga – ha aggiunto l’altro legale di parte civile l’avvocato Enrico Trantino – Marzia Fragalà torna in Cassazione oggi per il processo sull’omicidio di suo papà, dopo esserci stata nel 2009 proprio con suo padre”.


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