che giovedì si è tolto la vita in carcere.
Che emozioni ha provato quando ha saputo del suicidio?
“Ho letto la notizia su internet, e onestamente non me l’aspettavo. Non avevo nessuna notizia che lo riguardasse, non sapevo neanche dove fosse detenuto. Sapevo però che, a differenza degli altri due mafiosi condannati per l’omicidio (Totò Riina e Francesco Madonia, ndr), era piuttosto giovane. Quando assassinò mio padre Ribisi non aveva neanche 45 anni. Non me l’aspettavo, onestamente: non avevo motivo per pensare che potesse suicidarsi”.
Pensa che nelle cause del suicidio possa essere entrato il rimorso?
“Me lo sono chiesto. Penso che possa esserci stato un rimorso legato alla vita carceraria, tutt’al più: un rimorso legato all’avere sprecato la propria vita in carcere. Un rimorso connesso agli effetti pratici della sua condotta, piuttosto che alla condotta stessa”.
Perché ne è così certo?
“Non ha mai avuto un rimorso connesso al significato di quello che ha compiuto, l’assassinio di due persone innocenti colpevoli solo di aver fatto il proprio dovere. Se l’avesse avuto l’avrebbe manifestato con una forma di collaborazione o con un’aperta dichiarazione di pentimento, o quanto meno di dissociazione. Invece no: non ha mai dato segno di un travaglio interiore. Ecco: in questi casi, per rispondere alla sua domanda iniziale, non c’è spazio per il turbamento. Nessuno deve gioire per la morte di una persona, ma certo non si può provare compassione per una persona che non ha mai rinnegato nulla di quel che ha fatto”.
Nell’animo del figlio di una vittima non c’è spazio per il perdono neanche dopo la morte dell’assassino?
“Se la persona che dev’essere perdonata non lo chiede, se non fa nulla per meritarlo, è una cosa fuori luogo. Certo, sarebbe stato diverso se avesse preso una posizione diversa con una lettera: ma l’abiura è una condizione che non si verifica, fra i criminali di mafia”.
Francesco Madonia è morto, Ribisi si è suicidato. Degli assassini di suo padre rimane in vita solo Totò Riina. Ragioniamo per astratto: se chiedesse il perdono, se mostrasse i segni del travaglio di cui parlava, sarebbe disposto a perdonarlo?
“Non si può dire così, a priori. Certo, se Totò Riina parlasse, se dicesse tutto quello che sa il mondo crollerebbe. Allora sì che si potrebbe pensare al perdono, ma siamo lontani anni luce da un evento di questo genere: stiamo parlando di una persona tuttora orgogliosa di essere stata al vertice di Cosa nostra in uno dei periodi più cruenti della sua storia”.
Nella sua intervista pubblicata sul numero di “S” in edicola parla di un clima che si respirava negli anni Ottanta all’interno della magistratura. “C’erano magistrati un po’ meno rigorosi, più suscettibili a valutazioni morbide – ha detto -. Se la mafia ha deciso di ucciderlo, di uccidere un magistrato giudicante, è chiaro che ha ritenuto si trattasse di un’eccezione rispetto alla regola”. A Riina chiederebbe di parlare di quella magistratura?
“Quello che sa Riina è qualcosa di enorme: gli chiederei di parlare non solo della vicenda di mio padre, sulla quale il processo ha fatto piena luce, ma di molte altre cose. Se dicesse tutto quello che sa… ma insomma, stiamo parlando di pura fantasia”.
PALERMO – “Non lo perdono, neanche dopo la morte. C’è un presupposto fondamentale per il perdono: che la persona che deve riceverlo lo voglia. E che manifesti questa voglia con gesti concreti. Non è il caso di Pietro Ribisi”. Roberto Saetta è il figlio di Antonino, il primo giudice a essere stato ucciso da Cosa nostra. Sulla statale Agrigento-Caltanissetta, il 25 settembre 1988, ad aspettare il magistrato e il figlio Stefano, secondo una sentenza definitiva, c’era Pietro Ribisi, il boss di Palma di Montechiaro Il figlio di Antonino Saetta, ucciso dal capomafia che si è tolto la vita in carcere: "Non ha mai fatto niente per ottenere compassione, neanche adesso può essergli concessa". L'ultimo dei killer ancora in vita è Riina: "Se lui parlasse potrei perdonarlo. Ma dovrebbe dire tutto".