(R.P.) Manlio Averna, marito dell’assessore Chinnici, è un valente professionista. Nessuno discute la sua capacità e il peso della fatica con cui ha raggiunto un posto nel mondo del lavoro. Caterina Chinnici ha diritto al rispetto. Se l’è guadagnato per la sua storia personale e perché ha cercato di fare la sua parte, nonostante gli strali ingiusti che in Sicilia colpiscono solo le vittime di mafia. Comprendiamo la sua amarezza.
Ma il chiaroscuro di questa vicenda gestita con rara goffaggine da più soggetti – la trama che vi abbiamo raccontato sulla consulenza all’ingegnere Averna – è più forte della trasparenza. Purtroppo. Le immagini raddoppiano l’effetto. Nella fotografia che abbiamo scovato si vede l’assessore alla Funzione pubblica mentre presenzia a un evento, accanto al suo consorte, l’ingegnere. Una cerimonia domestica che riguarda l’Asp di cui si parla. E’ una foto, uno scatto. Non aggunge nulla. Raffigura. Permette il decollo di streghe moleste a cavalcioni di un malevolo e naturale dubbio, sicuramente ingiustificato, però gigantesco all’occhio della comunità. Apre l’ingresso al pensar male che conta sempre di più, a dispetto di ogni dato reale . E’ l’icona del “Caso Averna” col suo strascico di polemiche. E’ quanto basta per incenerire i migliori propositi.
Perchè? Perché c’è questo retrogusto di consuetudine, amaro e invasivo, quest’ombra perenne, il sospetto che ogni consorzio umano in Sicilia sia invariabilmente scolpito nella curvatura di un percorso familiare e di intrecci privati? Perché non riusciamo a liberarci dalla polvere visibilissima, dal veleno di un rimasuglio dietrologico, ancora una volta purtroppo, ovvio? Colpa di chi racconta? O responsabilità di chi agisce? L’onestà- cui prestiamo fede – dei protagonisti della nostra storia non cozza con le lingue di fuoco dello sconcerto, reso concreto e palpabile dalla cronaca di un fotografo. Si può essere puliti, ma involontariamente poco chiari. Insieme convivono, nelle fattispecie isolane, casi conclamati di brave persone con ottime intenzioni che hanno messo in crisi una istituzione per scarsa cautela e poco senso del limite estetico che diventa, alla fine, rossore etico. E sarebbe bastato un modico quantitativo di attenzione.
Solo vacuità e forma? Galateo del niente? Pensiamo di no. Non basta essere onesti, bisogna apparire onesti, consentendo rappresentazioni luminose nei connotati, spiegabili in ogni anfratto. Bisogna operare – una teorica regola ferrea per i volti della vita pubblica – in modo tale da non venire nemmeno sfiorati dal dito oscuro di una maldicenza, a torto o a ragione Pena la perdita di credibilità che è un danno per tutti.
Era un caposaldo della lezione di Paolo Borsellino, giudice onesto nell’esteriorità e nel cuore. Ma si sa, Borsellino è un’icona dell’antimafia celeste che ha poco a che fare con le provvidenze terrene. Peccato che sia stato dimenticato da coloro che, con maggior passione, avrebbero dovuto ricordare il suo stile e la sua sobrietà. Ricordare e operare con giudizio. Per non sbagliare più.