BAGHERIA (PALERMO) – Un braccio intorno al collo stretto fino a soffocare, un pugno, uno schiaffo, le scenate di gelosia. La violenza camminava di pari passo con l’ossessione, entrambe sarebbero esplose presto. E il confine tra l’amore e l’odio diventava sempre più labile. Lidia non lo sapeva. Non voleva ammettere a se stessa che quel sentimento che l’aveva fatta sentire unica e desiderata, era svanito. A prendere il suo posto erano state le botte, le stesse che le hanno fatto sfiorare la morte. “Vi prego – ha detto quella notte ai sanitari del 118 sull’ambulanza – rallentate, ho dolori e fitte ovunque”. “Non possiamo – le avevano risposto – non sappiamo se arriverà viva in ospedale, dobbiamo fare di tutto per salvarla”.
Una corsa disperata verso la speranza. Lidia Vivoli voleva sopravvivere a quell’orrore. E ce l’ha fatta. Ha lottato con tutte le sue forze e con il prezioso aiuto dei medici si è rimessa in sesto. Almeno fisicamente. Il suo cuore è ancora pieno di rabbia e di dolore, ma si è liberato del peso più grande, quello di un amore che non era tale e a distanza di tre anni è impegnata in un’attività di sensibilizzazione che, grazie allo sportello antiviolenza “Diana” di Termini Imerese, porta avanti nelle scuole. L’avvocato Maria Vittoria Cerami e una equipe di professionisti le offrono assistenza legale e psicologia e Lidia, oggi, ha ripreso in mano la propria vita. Ha 43 anni, vive a Santa Flavia, una frazione di Bagheria, in un appartamento che la notte tra il 24 e il 25 giugno del 2012 stava per trasformarsi nella sua tomba. Le fotografie scattate nella sua camera da letto descrivono momenti terribili. E’ stata picchiata, accoltellata, trascinata sul suo stesso sangue da un punto all’altro della stanza. Il culmine di un rapporto burrascoso con un uomo adesso in carcere, con condanna definitiva a quattro anni e sei mesi per tentato omicidio.
Un uomo che credeva la amasse. “Le mie amiche mi dicevano che ero stata fortunata – racconta Lidia -. Mi chiedevano come avessi fatto a trovare la mia anima gemella. Mi coccolava, veniva a trovarmi al lavoro con tanto di rose rosse, cucinava per me. Mi faceva sentire fondamentale. Dopo la fine del mio matrimonio ero molto sconfortata, forse per questo sono finita in trappola. L’avevo conosciuto ad una festa, cominciò subito a corteggiarmi. E da quel momento non mi lasciò più andare”.
Il suo racconto è accompagnato da due occhi vispi che si spengono quando arriva la descrizione del periodo in cui ha perso tutto, dal lavoro a quello che credeva essere il vero amore. Lidia soltanto per miracolo non ha perso anche la vita. E’ una sopravvissuta e oggi ne è più consapevole che mai. Porta quelle cicatrici addosso, una sul sopracciglio e fino alla guancia, l’altra sulla coscia. I segni indelebili di un paio di forbici che stavano per diventare un’arma mortale. Era lo stesso anno in cui la WindJet, la compagnia aerea per cui lavorava come assistente di volo, è stata travolta dalla crisi fino alla sospensione di ogni attività. “Poco prima del crollo finanziario la compagnia mi trasferì a Catania, lui venne con me. Il primo episodio preoccupante si verificò allora, quando mi chiese di vedere i miei cellulari. Nacque una discussione perché anche se i miei telefoni erano lì, senza pin, gli chiesi come mai volesse controllarli. Mi ritrovai col suo braccio intorno al collo. Tentò di sofforcarmi, io caddi a terra. Lui mi fece rialzare tirandomi per i capelli, allora mi feci forza e scappai da quella casa. Al mio ritorno mi implorò perdono, fu convincente. O forse ero io troppo fragile per capire che era soltanto l’inizio dell’inferno, perché dopo due mesi si verificò una escalation di violenza che trasformò la mia vita in un incubo”.
Non solo la perdita del lavoro, ma anche quella della fiducia, dell’autostima e, soprattutto, della piena lucidità. “Non mi rendevo conto. Scambiavo le sue ossessioni per amore. Non riuscivo più a distinguere il bene dal male nei miei confronti, per questo ogni volta, sbagliando terribilmente, lo perdonavo. Lo feci anche quando mi diede un pugno in testa dopo l’ennesima discussione, nata nel periodo in cui avevo trovato lavoro in un centro estetico. Mi disse di aver strappato dei soldi che avevo messo da parte per l’assicurazione dell’auto perché erano sporchi. Non capivo cosa volesse dire. Così mi spiegò di essere convinto che mi prostituivo. Mi crollò il mondo addosso, non sapevo più chi avevo davanti. E disperata andai a raccontare tutto alla fidanzata di un suo amico, per sfogarmi. Quando lo venne a sapere mi aspettò a casa per farmela pagare. A questo episodio ne seguì un altro: pochi giorni dopo mi chiese chi fossero tre uomini che mi avevano chiesto l’amicizia su Facebook e anche in quel caso gli bastarono pochi minuti per arrivare alla violenza. Mi diede uno schiaffo talmente forte da farmi esplodere il timpano. Mi rifugiai in un’altra stanza, cercai di coprirmi il volto, mi sferrò altri colpi sul petto, sul fianco, mi ruppe una costola. Quella sera mi feci portare in ospedale da mio padre, non ebbi il coraggio di dire cosa mi era successo e raccontai di essere caduta dalle scale”.
Credeva fosse colpa sua, pensava di sbagliare. E nel frattempo era avvolta dal terrore. “Purtroppo presi consapevolezza soltanto quella notte del 24 giugno, quanto rischiai di essere uccisa. Di mattina eravamo andati a Tindari, al santuario. Mi aveva chiesto per l’ennesima volta perdono, davanti alla Madonna. Fu una bella giornata, lui si mostrò gentile, disponibile, era tranquillo, pieno di buoni propositi. Mi promise che non mi avrebbe più picchiato. Ero confusa ormai, non sapevo più quello che volevo. Decisi di godermi quella giornata e basta, magari gli avrei parlato un’altra volta, gli avrei detto che la nostra storia non poteva continuare”.
Lidia aveva ancora una volta preso del tempo, ma stava per costarle caro. Troppo caro. “Quella notte guardammo la tv, ci addormentammo abbracciati. Intorno alle 2 si svegliò, mi disse che stava andando in bagno. Io stavo dormendo a pancia in giù. All’improvviso sentii un dolore lancinante alla testa, mi aveva sferrato un colpo violentissimo con una padella di ghisa. Talmente forte da far staccare il manico. Mi voltai, vidi i suoi occhi come non li avevo mai visti, pieni di rabbia. Era irriconoscibile. Poi prese un paio di forbici, mi colpì sulla schiena. Cercai di difendermi, riuscii a disarmarlo, ma le forbici si aprirono tra le mie mani, ferendomi prima al sopracciglio, poi squarciando la mia coscia durante la colluttazione. Stavo già perdendo molto sangue, non avevo forze. Ma non mi arresi. Cercai di divincolarmi, ma lui mi immobilizzò prima col cavo elettrico dell’abat-jour, poi cercò di strozzarmi col filo del ventilatore. Mi trascinò sul mio stesso sangue, poi mi colpi di nuovo, rompendomi altre due costole. Poi mi tirò in faccia una bottiglia d’acqua. Si vestì e se ne andò, dicendomi che se l’avessi denunciato mi avrebbe uccisa”.
Lei, con un filo di voce e ferite in tutto il corpo, riuscì a chiamare il 118. “Non riuscivo nemmeno a parlare, vidi la morte con gli occhi. I medici chiamarono i carabinieri, finalmente riuscii a raccontare l’inferno che stavo vivendo e lui fu arrestato. Quando gli furono concessi i domiciliari cominciò a perseguitarmi, a farsi trovare in tutti i luoghi che frequentavo, a mandarmi sms. Adesso è in carcere, ma un giorno uscirà ed io temo possa farmi di nuovo del male. So però di non essere da sola. Sono circondata da persone che mi amano, che mi danno forza e che mi hanno aiutato a riprendere in mano la mia vita. Cerco disperatamente un nuovo lavoro, ma non mi scoraggio, perché la mia fortuna più grande è essere ancora viva. Per questo – conclude – lancio un appello a tutte le donne che non riescono a difendersi e subiscono continue violenze da chi credono di amare. Ribellatevi, lasciate gli uomini che vi picchiano, umiliano, che vi fanno credere sia colpa vostra. Non isolatevi, perché quando rimaniamo sole ci uccidono”.