PALERMO – Le rivendicazioni di omicidi e intimidazioni a partire dal ’92 da parte della Falange Armata, prova di un progetto unitario di destabilizzazione istituzionale, l’anonimo denominato Corvo 2 che dimostrerebbe i rapporti anomali tra i carabinieri del Ros e l’ex politico Calogero Mannino, il ruolo di Marcello dell’Utri nel progetto politico che avrebbe dovuto sostituire la Dc, avviato già a fine ’91. E ancora l’inchiesta mafia-appalti e le Leghe, movimenti separatisti con legami con eversione nera e massoneria. In due ore e mezzo di requisitoria il pm Roberto Tartaglia, pubblica accusa al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, ha tentato di comporre i primi pezzi dell’intricato puzzle oggetto dell’impianto accusatorio. Alla sbarra, davanti alla corte d’assise di Palermo, in un processo iniziato 4 anni e mezzo fa, ci sono 10 imputati: carabinieri del Ros come Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, boss come Antonio Cinà e Leoluca Bagarella, pentiti, Massimo Ciancimino e gli ex politici Marcello dell’Utri e Nicola Mancino. Il fine è dimostrare come fin dall’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima, a marzo del 1991, Totò Riina, ispirato da menti più raffinate avrebbe messo in atto un piano volto a destabilizzare lo Stato. Piano partito all’inizio con lo scopo principale di eliminare i politici che non avevano mantenuto i patti con la mafia, poi virato verso una strategia di minacce e morti che aveva come scopo creare tensione e allarme sociale. Il pm cita pentiti come il catanese Malvagna, che ha raccontato, come dietro la Falange Armata, che rivendicò il delitto Lima ma anche le minacce a esponenti istituzionali dell’epoca, ci fosse il boss corleonese. E la regia unica che si celava dietro la sigla venne colta anche dall’ex premier Giovanni Spadolini che nei suoi diari definì la “Falange uno degli strumenti della strategia di ricatto alle istituzioni della mafia supportata da rigurgito massonico”.
Riina, dunque, deciso dopo la sentenza della Cassazione che confermò il maxiprocesso a colpire i politici che l’avevano tradito, a un certo punto avrebbe ampliato l’obiettivo. E sarebbero spariti dalla lista degli obiettivi da eliminare personaggi come Calogero Mannino. Tartaglia ha anche a lungo parlato dei rapporti “anomali” tra Mannino e l’ex capo del Ros Antonio Subranni che, a suo dire, avrebbe fatto pressioni per archiviare prima possibile l’anonimo denominato “Corvo due” in cui si parlava delle relazioni mafiose dell’ex ministro. Mannino, processato separatamente in uno stralcio del dibattimento trattativa, è stato assolto. Da nemico di Cosa nostra, in quanto traditore, l’ex potente dc condannato a morte sarebbe stato risparmiato. “Salvatore Biondino mi disse fermati con Mannino e non ho mai saputo perché mi revocò quel mandato di morte”, ha raccontato il pentito Giovanni Brusca ai pm, come ha ricordato Tartaglia. Per la Procura è la prova che Cosa nostra, su suggerimento di altri, ha cambiato linea ed è passata alla strategia terroristica: ai “morti innocenti, ai monumenti che verranno attaccati nel ’93”, ha detto il magistrato. Poi il magistrato ha iniziato a trattare il capitolo Dell’Utri: “dopo l’omicidio Lima e prima della strage di Capaci – ha detto Tartaglia – Dell’Utri dà un primo incarico occulto a Ezio Cartotto, dipendente di Publitalia, di creare comitati che raggruppassero persone provenienti da più partiti, per sostituire la dc come referente di Cosa nostra, per creare un partito alternativo”. Infine si è parlato delle Leghe autonomiste fondate da personaggi vicini ad eversione nera e massoneria come Stefano delle Chiaie. In Sicilia erano gli anni in cui Leoluca Bagarella progettava di scendere in campo con un partito di Cosa nostra: Sicilia Libera.
Aggiornamento
Le prove ci sono, sono nei fatti. La trattativa tra lo Stato e la mafia ci fu. Lo dicono sentenze definitive dei giudici fiorentini, lo ammisero gli stessi imputati. Nino Di Matteo, pm del pool che ha istruito il processo sugli anni bui delle stragi mafiose, ne è certo e tuona contro la stampa. Una stampa che, dice, negli anni ha parlato solo di bufale, di ricostruzioni prive di senso, negando la verità dei fatti. Nel secondo giorno della requisitoria del processo che tenta di far luce sul dialogo che pezzi delle istituzioni avrebbero avviato con Cosa nostra nei primi anni ’90 il magistrato cita le stesse testimonianze dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno, sentiti davanti alla corte d’assise di Firenze nel ’98.
Allora erano solo testi, ora sono imputati, e raccontarono ai giudici dei loro incontri con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. “Andammo da Ciancimino e dicemmo ‘ormai c’è un muro contro muro, ma non si può parlare con questa gente’?”. Di Matteo non ha dubbi: la trattativa è questa, il tentativo di dialogare con Totò Riina e i suoi. “Questo – spiega – fecero i carabinieri del Ros, tacendo tutto ai magistrati e cercando una sponda politica”. Ma la ricostruzione dei pm è molto più articolata e tenta di aggiustare il tiro rispetto alla narrazione originaria della storia che vedeva i militari dell’Arma protagonisti di un tentativo di dialogo con la mafia finalizzato a far cessare la guerra che Riina aveva dichiarato allo Stato. I vertici del Ros dell’epoca, infatti, sarebbero molto più che investigatori senza scrupoli intenti a muoversi ai limiti della legge diventando ispiratori della strategia terroristica di Riina. Sarebbero stati loro, infatti, a condizionare la linea d’azione del padrino corleonese che, da una iniziale decisione di eliminare i politici che non avevano mantenuto i patti con la mafia, passa alle minacce alle istituzioni e agli attentati non più a nemici storici ma a cittadini innocenti. Come nelle stragi nel ’93.
Le prove? Il pm Roberto Tartaglia, tra i quattro magistrati del pool dell’accusa, ha citato le dichiarazioni dei pentiti, la rivendicazione unitaria di attentati e intimidazioni sotto la sigla della Falange Armata. Escamotage ispirato a Riina per creare allarme sociale e rivelatore di un disegno unitario. A Cosa nostra, storicamente interessata a fare la guerra per fare la pace, questa sorta di piano di destabilizzazione ispirato dai carabinieri di Mori, da sempre vicino ad aree deviate dei Servizi, sarebbe piaciuto. E sarebbe piaciuto anche ad altri soggetti come personaggi dell’eversione nera del calibro di Stefano delle Chiaie e uomini di Licio Gelli che, già nei primi anni ’90, cercarono di dar vita a movimenti separatisti con obiettivi spesso auspicati anche da Cosa nostra: uno per tutti l’eliminazione del reato di associazione mafiosa Nella lunga ricostruzione del pm ha un ruolo anche Marcello Dell’Utri, tra gli imputati del processo. “Dopo l’omicidio Lima e prima della strage di Capaci – ha detto Tartaglia – Dell’Utri dà un primo incarico occulto a Ezio Cartotto, dipendente di Publitalia, di creare comitati che raggruppassero persone provenienti da più partiti, per sostituire la Dc come referente di Cosa nostra, per creare un partito alternativo”. (ANSA)